Ferita. Sguardo su una gente dedicato ad Adolf Hitler

RASSEGNA STAMPA

“E’ un’opera corale, visiva, ripetitiva, incantatoria, lineare nello svolgimento e ricchissima nei dettagli. Sotto lo sguardo assente mascherato da occhiali da sole di un giovane viso duro che guarda dall’alto – sotto un mixaggio tra frammenti radio o tv e discorsi sul popolo ebreo e i suoi dolori – sfilano attaccate ad un’inquadratura cinematografica donne (e un uomo) in nero, appiattite su un quadro che ricorda un Mondrian sbilenco in bianco e nero. Si succedono ciclicamente proiettando ombre inquietanti, aggrappandosi ad appigli che non ci sono, crocifisse a chiodi inesistenti, schiacciate da un supplizio che non si vede. Ruotano sotto le immagini di un film solarizzato in blu elettrico, con immagini che si formano e svaniscono. Ruotano fino a spogliarsi nude, a perdere l’abito nero, tutte, tranne una, e ricomparire vestite in sgargianti abiti rossi e tacchi. E aprono un varco nel muro, entrano, scompaiono e lasciano sola l’unica rimasta in nero fino alle parole di piazza della Loggia, a Brescia, 1974, e all’esplosione della bomba, che apre la ferita del muro in vano bianco. E i rossi cercano di dire parole e si tappano le bocche e si trasformano in un mostro a quattro zampe del silenzio, dell’afasia, mentre la superstite della memoria viene inghiottita”

(Massimo Marino, “l’Unità”, 23 aprile 1995)

 

“La figura vestita di un lungo abito nero e con gli occhiali scuri, fatale femme dark, appoggiata alla parete si sposta lentamente da un lato all’altro della scena, cade e si risolleva, si rigira su di sé. Un’altra figura femminile del tutto simile la segue, quasi rotolando questa sulla parete, va a prendere il suo posto mentre la prima scompare. Poi un’altra e un’altra ancora, in un percorso che si ripete con una spossata lentezza, mentre nel riquadro illuminato compaiono le ombre blu cobalto di un film decolorato, le immagini irriconoscibili e mute di un concerto rock. E’ una lunga sequenza resa ancor più emozionante e ripetitiva dalle poche frasi di una canzone di Gavin Bryars che si ripetono ossessivamente”

(Gianni Manzella, “Il Manifesto”, 4 maggio 1995)

 

“Oblio della mente che rimuove la coscienza e il senso di responsabilità, facendo coincidere, nella percezione, il furore di una strage e il rumoroso frastuono di un concerto, gli eccessi di una ideologia distorta con i miti del villaggio globale. Quest’opera corale, fortemente emotiva, provoca reazioni contrapposte facendo balzare sul palcoscenico frammenti di realtà che coincidono paurosamente con il nostro vissuto quotidiano, dominato da nuove e sofisticate “dittature” che annientano il teatro dei nostri pensieri”

(Monica Berzacola, “L’Arena”, 24 aprile 1996)

 

“E’ un lavoro eversivo, originale nella sua particolarità fortemente intellettualistica, forte nell’esplicazione di un’ideologia che a tratti sembra varcare i limiti della rassegnazione. Quasi che sia stato montato così, privo di respiro, allo scopo di condannare l’imperdonabile dimenticanza di un periodo storicamente vicino, che non trova spazio nelle menti dei giovani, annientati dalla televisione vociante, annichiliti da facili miti da inseguire”

(Tiziana Cozzi, “Il Giornale di Napoli”, 17 novembre 1996)

 

“Lo scorrere delle donne in nero su una superficie bianca tagliata da luci che rendevano l’ombra un’entità diversa dal corpo. I corpi nudi, oltraggiati dalla Storia, che un efficace gioco di neri rendeva statue greche, la voce fortemente contrastata di una Eva Robin’s uscita dalle pagine patinate di una rivista di moda per ricordare con quanta eleganza i nazisti parlassero di soluzione finale e di sterminio”

(Marina Manganaro, “Corriere Adriatico”, 9 dicembre 1996)

 

“Cosa c’è di peggio per una ferita? Cospargerla col sale dell’oblio, annebbiarla nella mente fino a che diventa un’immagine improbabile, forse mai esistita. E di fronte allo svaporare della memoria, imbarazzante fenomeno dei nostri tempi, lo spettacolo di Andrea Adriatico cerca un piccolo argine, quel poco o quel tanto che si può comunicare a teatro. L’acutezza visionaria della regia graffia un incisivo pro-memoria per lo spettatore”

(Rossella Battisti, “L’Unità”, 16 dicembre 1996)

 

“Un lamento in diretta che incamera parole di Eli Wiesel, detto da Eva Robin’s fasciata in rosso, con un’acconciatura da medusa, che pronuncia le sole parole in diretta della serata: l’allarme per un pericolo, un’apocalisse banale, una violenza contro l’individuo nel nome dell’estrazione a perpetuare uno storico orrore. E allora i movimenti ritmati di Monica Francia si fanno nella loro continuità più determinati, i corpi ora visibili a tutto tondo più nitidi in uno spazio che conduce a un passaggio retrostante attraverso una porta, un taglio nello spazio, una ferita alla Fontana in cui l’ultimo corpo rimarrà per terra impigliato come un verme o un insettaccio kafkiano”

(Franco Quadri, “La Repubblica”, 19 dicembre 1996)

 

“Dietro le quinte, da qualche parte, c’è una televisione lasciata accesa: è il simbolo del nostro tempo, il cancellino che annulla qualsiasi ricordo, anche Hitler, la violenza, le vessazioni, tutto sembra lontano per i giovani del nostro tempo. Tutto è uguale, tutto passa inosservato, persino i Dieci Comandamenti, pilastro etico della nostra civiltà, arrivano alle nostre orecchie con la stessa musicalità di un cartone animato di Bugs Bunny. Qualsiasi sofferenza è filtrata dal ronzio soporifero della tv, il distacco è espresso dal sorrisetto con cui Eva Robin’s, unica a recitare dal vivo, pronuncia parole tremende sull’olocausto ebraico”

(Barbara Gizzi, “Il Tempo”, 21 dicembre 1996)

 

“Il lavoro vive per cinquanta minuti sorretto da immagini e da suoni quasi sempre accattivanti, in una “povertà” visiva e iterativa, simile a un esorcismo passivo e provocatorio. Come quando alla ferita nella tela-scenografia si aggiunge all’improvviso, con un’irruzione di corpi nudi, la “ferita” body-art dei sessi scoperti degli attori”

(Fabio Pacelli, “Hystrio”, luglio-settembre 1997)