L’auto delle spose

Primo episodio della serie Automobili sulla linea dell’ombra (2000-2003).

Automobili. Niente di più. Universi autosufficienti. Stili di vita. Espressioni di libertà e di movimento. A qualsiasi latitudine, sotto qualsiasi cielo, a qualsivoglia temperatura, un’automobile è lì a ricordarci che ogni paesaggio del nostro universo è un paesaggio comune, a ricordarci che il nostro è ormai un mondo gemello.

Automobili sulla linea dell’ombra è un progetto seriale di Andrea Adriatico: differenti eventi teatrali basati su diversi modelli di vetture. Microstorie per raccontare l’esistenza sulla linea dell’ombra e quell’ansia di movimento che è tipica dei nostri contemporanei. Può stare in un teatro. In una piazza. In un vicolo. In un parco. In un’autostrada. In un parcheggio. Ovunque ci sia vita. Senza altre necessità. A volte forma processioni. Altre volte grappoli di persone sparsi. Si confonde nelle città, nelle campagne, nei paesaggi. Discretamente e misteriosamente. Accoglie sessi ingordi e trappole. Risolve scomparse. Come in un noir.

Automobili racconta anime, attraversa confini, esplora vicoli e autostrade. Abita le lingue, tutte e nessuna. Abita la musica. Abita le automobili e gli occhi della gente.

 

L’AUTO DELLE SPOSE

La storia ci racconta di lunghe automobili con nastri e fiori, matrimoni da fotografie patinate e abiti bianchi inamidati, banchetti sontuosi e cerimonieri in divisa. Dentro L’auto delle spose scorre un altro matrimonio: sono nozze tra individui colti come in un’istantanea sulle soglie della loro linea d’ombra; abitanti di questi enormi bastimenti contemporanei che sono le automobili.

Il matrimonio in questione è quello che ogni giorno si prova a celebrare tra l’alba e il tramonto, tra la vita e la morte, tra la solitudine e la comunicazione. Sulle note di un tango argentino, in una dimensione sospesa tra la vetrina di un negozio da haute couture e l’atmosfera di un possibile campo nomadi la nostra auto delle spose diventa lo scenario contenitore di una serie infinita di matrimoni dove gli spettatori sono chiamati, a bordo delle loro auto, a fare da testimoni e a partecipare alla festa di un congiungimento impossibile.

L’auto delle spose è il palcoscenico di un luna park, è una sequenza vitale possibile proiettata a velocità raddoppiata rispetto al reale, come i tempi dei ricordi, più veloci di quelli della vita. E gli spettatori perdono il loro statuto, diventano ospiti e comparse di uno spettacolo che qualcun altro, chissà, starà guardando attraverso le pareti del teatro. Già, perché è forse in questa ideale continuità scenografica tra l’automobile abitata dagli attori, una Alfa 166, e quelle abitate dal pubblico che si consuma la vertigine del dialogo teatrale.

Per partecipare occorre avere a disposizione un’automobile, propria o di amici o di qualcuno a cui si sia chiesto un passaggio da autostoppisti. All’Auto delle spose sono ammesse solo vetture.

 

RASSEGNA STAMPA

Un’automobile, nella fattispecie un’Alfa Romeo 166, è il luogo intorno e dentro il quale si sviluppa il gioco al massacro dei personaggi, gioco scardinato sempre da un terzo interlocutore; elemento scenografico, casa-auto, contenitore e contenuto, l’automobile viene abitata, usata, spostata lungo il palcoscenico con accensione del motore (forse un rimando ideologico alla casa-incubo di qualche Koltès fa, spettacolo firmato dallo stesso Adriatico e ispirato alla Uno bianca della cronaca nera), cucendo addosso alla carrozzeria e sulla tappezzeria delle microstorie che hanno uguale inizio e identico plot (si veda i passi di tango che gli innamorati o i sedotti di turno compiono) ma, dicevamo, finiscono con la fuga inaspettata, il coup de théâtre dove non fanno una gran bella figura gli uomini. Lo spettacolo sintetizza i temi ricorrenti nel modo di lavorare di Adriatico: una certa “morale” di fondo, l’ipnotico reiterarsi del movimento scenico che sfocia in una partitura coreografica, la negazione di una sessualità – qualsiasi essa sia – codificata da sistemi di produzione.

(Paolo Ruffini, “Primafila”, giugno 2000; in occasione di una anteprima dello spettacolo)

 

L’attesa è sicuramente il filo conduttore di uno spettacolo in cui le parole non vengono dette, le azioni sono bloccate da continui break di luci e si ha l’impressione di assistere, per il suo svolgersi a tratti sincopato, a tratti lentissimo, alla materializzazione di un sogno. Un sogno immaginato da qualcun altro, i cui protagonisti sono burattini legati a fili pesanti e invisibili, come i desideri carnali che li animano.

Un’unica sposa si unisce in matrimonio con un marito presto abbandonato per il fotografo-autista che, nel momento in cui celebra il proprio matrimonio con la sposa fedifraga, viene a sua volta lasciato per un altro fotografo, questa volta donna. Da qui la motivazione del titolo e la conclusione dello spettacolo che, a parte un finale a sorpresa di cui non vi anticipo nulla, pecca di dejà-vu, con un forte riferimento a Thelma e Louise con tanto di istantanea in macchina.

A parte questo piccolo neo, lo spettacolo è stimolante e originale. La colonna sonora è ipnotica e puntuale, sottolineando i silenzi e creando una partitura di significati che assume la stessa importanza delle immagini.

Quadri viventi, esasperati, enfatizzati da gesti quotidiani spostati in un universo surreale. A tratti sembra di assistere ad un happening, spaesati e affascinati da una recitazione fatta di una partitura fisica vicina alla danza.

Splendido il tango tra la moglie e il primo marito. Un’illusione di ricongiungimento, dopo un tradimento consumato sotto gli occhi del giovane esterrefatto. Tango che è una sorta di lotta erotica, i due ballerini avvinghiati in un bacio disperato.

Sicuramente lo spunto più originale, a parte la scelta di un pubblico automunito, è il complesso luci. Niente fari, niente gelatine colorate, solo le luci di cortesia della vettura, i suoi fanali e, a volte, una torcia elettrica, puntata dal fotografo di turno in maniera da disegnare un gioco di ombre sul volto degli attori e sulle pareti del teatro davvero magico. Le scene d’amore nella vettura risultano così distanti ed eteree, grazie alla luce fioca dell’abitacolo, magistralmente oscurata o liberata dai movimenti degli interpreti.

(Valerio D’Annunzio, “Flash Giovani”, 12 dicembre 2000)

 

Ed è spettacolo già prima che lo spettacolo cominci: le auto degli spettatori formano all’entrata una processione, proprio come per un matrimonio e, una per volta, entrano nella sala al suono della domanda di Vinicio Capossela: “che cosa è l’amor?”. L’auto delle spose è una sequenza vitale che si dipana più veloce del reale. E’ la storia di due coppie, della fragilità delle unioni ma, insieme, delle infinite possibilità di rapporto, del senso, illimitato e molteplice. E’ un evento, che rappresenta una nuova tappa nella costante ricerca, da parte di Adriatico, di spazi non consueti per il teatro.

(Federica Iacobelli, “Il Domani di Bologna”, 13 dicembre 2000)

 

La storia che si racconta, che percepiamo a sprazzi, secondo le visuali consentite dalla posizione dell’auto-isola in cui ci troviamo, dal gioco fra i cristalli del nostro e del loro parabrezza, dalla luce repentina e dal buio, è una specie di noir che cresce sotto i lustrini della cerimonia. Le tensioni del sesso, del desiderio, fra un lui, una lei e un terzo, ora cerimoniere, ora fotografo che esclude lo sposo dall’inquadratura ricordo, ora rivale di quest’ultimo, seduttore, mentre si sentono i colpi di qualcuno che da qualche parte bussa e all’italiano si mescola una lingua slava.

Dal buio spunterà, dopo tanghi struggenti e sensuali, dopo abbandoni, un’altra lei, dal baule della macchina, e un lui, il primo marito, sarà rinchiuso nel cofano, e inizierà a battere. Poi di nuovo il triangolo mette in moto le sue dinamiche, di nuovo uno finisce nel baule. Ma questa volta è l’altro lui, e rimangono, a cercarsi, danzare, abbracciarsi, baciarsi, due lei, Thelma e Louise, o le protagoniste di Baise-moi, o quelle di una famosa pubblicità, o semplicemente due donne. L’automobile è maschera e schermo dove viene nascosta e ingrandita la passione, il fuoco che cova dentro. E’ alcova e luogo d’incubazione di desideri, di ricerche, di scambi.

(Massimo Marino, “Tuttoteatro.com”, 14 dicembre 2000)

 

Noi vediamo l’oggetto e i suoi occupanti dall’abitacolo della nostra vettura, nel piccolo drive-in teatrale del capannone bolognese dove vengono introdotte a spinta da animosi parcheggiatori sei vetture con gli spettatori. Si costruisce subito un gioco frammentato di inquadrature, che partono dal nostro parabrezza e si suddividono ulteriormente nei riquadri dei finestrini della macchina nuziale. E se qualche dettaglio ci consente di individuare fisionomie, atteggiamenti, gesti, quello che ci viene negato sono le parole, semmai arrivano i suoni melensi o sensuali dell’autoradio. (…) Tutto passa per quel ristretto spazio abitato, che diventa luogo iniziale e finale di qualsiasi esperienza umana, lì si possono intrecciare seduzioni, consumare amplessi, uscirne per abbandonare o rientrarvi per dar vita a nuovi dialoghi. Nulla di vero o di definitivo, fa intendere Adriatico, semmai frammenti, non solo di un discorso amoroso, ma dell’esperienza umana nelle forme più ovvie e quindi più simboliche.

(Antonio Audino, “Il Sole 24 Ore”, 20 maggio 2001)

 

Pochi elementi sapientemente calibrati, la secchezza creaturale dei performers, il luna park luminoso garantito dall’automobile, guidano lo spettatore tra le inquietudini dei personaggi, tra i ribaltamenti di ruolo che essi attuano, pronti a reinvestire se stessi in un nuovo, immediato desiderio erotico. Il gioco di spaesamenti amorosi fa sì che il matrimonio venga inesorabilmente confuso con il suo annullamento istantaneo, in un continuo riinnamoramento dello sposo/a per un altro/a, fino alla esaltazione di un inatteso amore lesbico.

La ciclicità, ancora una volta sadiana, con cui è costruito questo meccanismo, impone allo spettatore un sussulto ulteriore, quasi a svelare la componente trasversale di un lavoro stratificato, la sua anima inquieta. Tutta la durata dell’azione è segnata da un rumore sordo e fastidioso di pugni contro la lamiera dell’auto. Solo a spettacolo inoltrato, il cofano posteriore svela l’enigma acustico, rivelandosi come straordinaria zona di presenza e occultamento, scoprendo l’esistenza di un’attrice pronta a ricaricare dal principio il dispositivo teatrale. Una evocazione di soffocamento e angoscia che permea con aria sinistra lo svolgimento dell’azione, fissando la narrazione su quel senso di morbosità annunciato dall’entrata in auto nello spazio scenico, e che neanche la retorica celebrazione finale del matrimonio delle due coppie coinvolte – a cui partecipa attivamente il pubblico dopo il rituale lancio benaugurale di riso, con tanto di torta nuziale (vera) e brindisi con gli attori – riesce a fare scomparire.

(Fabio Acca, “Godot News”, 22 maggio 2001)

 

… nel complesso, nello spettacolo andato in scena all’Unimar l’altra sera non si coolgono guizzi di ironia oppure di agili ammiccamenti mimici. Non c’è, come si diceva un tempo, né messaggio né provocazione formale. C’è solo un progetto noioso e non realizzato …

(p.l., “La Stampa-Genova”, 7 novembre 2001)

 

Garantito: nessuno può darsela a gambe a metà spettacolo. Se i Teatri di Vita, ospiti della Tosse, con il loro “drive in”, vogliono dirci che l’automobile, mito e necessità del nostro tempo, può essere anche una trappola, non si può negare che centrino l’obiettivo …

(Silvana Zanovello, “Il Secolo XIX”, 7 novembre 2001)