fuga. un pezzo dedicato a bernard-marie koltès

RASSEGNA STAMPA

“Sulla scena, mirabilmente allestita dal gruppo e dilatata fino a ricomprendere anche la platea compresi gli spettatori, si muovono otto personaggi diversi, ma tutti dominati da un destino segnato e consumati dalla sorda e cruda realtà di una città di oggi. Una città fagocitante, che impedisce ogni sorta di comunicazione e che ospita, a fatica, certe tipologie di paesaggi umani, come quello dominato dalla follia, dall’opportunismo, dall’indifferenza o dalla rassegnazione”

(Rita Giannini, “La Gazzetta di Rimini”, 17 gennaio 1992)

 

“Questa metafora del deserto e del sole che inaridisce come l’amore torna in Fuga, messo in scena da Andrea Adriatico, un regista al suo notevole debutto. Fin dal titolo, il giovane regista annuncia la sua posizione nei confronti di Koltès. Il quartetto che è al centro dell’ultralirico romanzo è fissato in uno spazio astratto, metafisico, platonico: come se dannazione e male fossero indici di una purezza a priori, tutta bianca, tutta lucente”

(Franco Cordelli, “L’Indipendente”, 7 febbraio 1992)

“Si viene immessi in uno spazio apparentemente “religioso”, dove spiccano inizialmente, a mo’ di tableaux statico, otto personaggi diversi nel look, ma accomunati da storie parallele di disagio, di ossessioni, di disattamento, di imprecazione iterata nei confronti di una maledetta città e di una vita disgregata. Evocazioni filtrate dai monologhi intrecciati e dai dialoghi brevi e frammentati dei personaggi giostrati dalla regia di Adriatico in percorsi obliquamente geometricamente obbligati, e sclerotizzati in movimenti quasi minimali”

(Gianfranco Rimondi, “Mongolfiera”, 13 marzo 1992)

 

“Un gruppo immobile già all’inizio accoglie i quindici spettatori ammessi sul palcoscenico di Spaziouno, trasformato in una stanza tutta bianca che si sdoppia in un secondo locale dietro bianchi pannelli girevoli e qualche gradino: sul pavimento come un tappeto ecco il manifesto Benetton-Toscani sulla mafia, e quello sulla morte per Aids sotto una finestra da cui una donna smetterà di spiare lo spettacolo solo per intonare Romagna mia. E’ questa la sola licenza nella elegante cornice asettica, dove gli attori fluttuano con intenti sofisticati, esprimendo senza immedesimarvisi i personaggi”

(Franco Quadri, “La Repubblica”, 28 aprile 1992)

 

“Un’opera affascinante, scultorea, ipnotica e difficile da decodificare, impastata di significati e di rimandi, aggrovigliata come una foresta nella purezza di linee architettoniche e cromatiche della scena e dei costumi, quasi come la tragedia di Edoardo II nell arilettura di Derek Jarman”

(Stefania Chinzari, “l’Unità”, 30 aprile 1992)

Fuga racchiude in un involucro di meditata eleganza quella fusione incandescente di abiezione e di sublime che segna la scrittura di Koltès, e si evidenzia per l’incantata qualità con cui impagina sulla scena le frammentate tensioni che percorrono il testo”

(Pietro Favari, “Corriere della sera”, 8 maggio 1992)

“E’ come un concerto di musica contemporanea, con voci apparentemente stonate, con sussulti improvvisi, con canti disperati, la parola ha appena modo di dare corpo ad un significato, di teorizzare l’ipotesi di un valore possibile. E’ difficile raccontare i singoli percorsi degli otto personaggi/immagine. Perché si presentano come esseri monologanti in un mondo che non li ascolta. Al centro dello spazio campeggia il manifesto pubblicitario della Benettonn riverberato, di lato, in una insegna al neon: è forse quello il referente urbano cui dobbiamo appigliarci? E’ là il punto di una tragedia già avvenuta? Oppure vi si espone la necessità di una riflessione che i mass media tendono a sorpassare?”

(Dante Cappelletti, “Il Tempo”, 16 maggio 1992)

“Gli spettatori sono invitati a prendere posto sul palcoscenico, a ridosso degli interpreti e, da voyeur dichiarati, a guardare immobili sulle loro seggioline da garden-party le figurazioni ferme e ieratiche, da moderno tableau vivant, degli attori che si limitano ad apparire, a proiettare nello spazio frigido e bianchissimo di un palco-atelier cinto di morbidi veli di tulle i loro corpi fasciati nello sparato bianco e nero dello smoking e languidamente carezzati dai lini chiarissimi e dalle cupe guaine color fiamma e color fucsia delle toilettes femminili”

(Enrico Groppali, “Hystrio”, ottobre/dicembre 1992)