Donne. Guerra. Commedia

Nuova edizione di donne. guerra. commedia (1993).

Il testo con questa traduzione è stato pubblicato in volume.

 

RASSEGNA STAMPA

 

Il regista rifiuta ogni seduzione della scena; l’azione è raffreddata, sottratta a qualsiasi allettamento emozionale, fino rasentare in molti punti i confini della semplice esposizione delle voci e delle parti che si intrecciano. Le attrici sono congelate in pose studiatissime, o immobilizzate, come nel finale, davanti a quel muro che evoca anche quello caduto a Berlino, città dove Brasch visse prima a est e poi, dopo la fuga dalle delusioni del socialismo reale, a ovest. L’unica coloritura sta in alcuni tic vocali o fisici accumulati per aiutare il gioco delle moltiplicazioni. Una tale scelta vorrebbe concentrare l’attenzione sulla scabra essenza ideologica del testo, sulla brutalità della condizione evocata, sulla necessità di scavare sotto le maschere sociali, ideologiche, della realtà. Ma il rischio è quello di raffreddare un testo già a scatole cinesi, che non fa nulla per non dimostrarsi come un raffinato gioco di smontaggio di materiali culturali e umani. La tensione e la molteplicità finiscono per risultare appiattiti in un ronzio indistricabile dell’intelligenza costruttiva. (…) La cifra visiva incombente è la continua presenza muta sulle lavatrici, muro del pianto, cinta difensiva, luogo di fucilazioni, barriera da superare connotata dal nitore imbarazzante di un consumismo che, come la guerra, come le passioni, come le piccole viltà, tutto divora.

(Massimo Marino, “Tuttoteatro.com”, 25 gennaio 2003)

 

Se non bastasse l’estrema mobilità della scrittura e del pensiero di Brasch (…), il regista decide di aggiungere un ulteriore livello, con un forte spiazzamento visivo, collocando i tre attori che si succedono nei vari brani in uno scatolone bianco, asettico, con lavatrici, fustini di detersivo, flaconi colorati di detergenti vari, in un’efficacissima astrazione pop. Eppure si parla di guerra, come nel brano centrale affidato alla mobilissima e acuta interpretazione di Gino Paccagnella, dove evocando Troia si descrive un muro che divide, costruito silenziosamente. Mentre nel primo quadro di questa trilogia due donne, interpretate da Francesca Ballico e Francesca Mazza, sembrano essere due lavandaie durante la Prima guerra mondiale, al fronte per cercare un giovane soldato, prima che i livelli si moltiplichino e i ruoli si confondano. Si chiude con un intensissimo monologo finale reso con infinita sottigliezza da Francesca Mazza, in cui una donna attende, immaginandolo, l’interrogatorio durante il quale confesserà di aver ucciso il suo bambino. Ma sarà vero? O anche questo è un labirinto di specchi che rimandano lampi di follia, deliri, in una moltiplicazione che è l’essenza stessa del teatro, della finzione scenica, sempre tenuta d’occhio (quando non citata esplicitamente) dall’autore. Resta però, come uno sfondo concreto, uno strato sensibile e vero di dolore e di disperazione.

(Antonio Audino, “Il Sole 24 Ore”, 2 febbraio 2003)

 

C’è un muro in scena, nell’allestimento di Donne. Guerra. Commedia di Thomas Brasch firmato da Andrea Adriatico, ma è un muro di lavatrici tutte uguali e bianche, con gli oblò che si aprono come finestre. Meno minaccioso di quello crollato a Berlino e più saldo di quello di Troia, sembrerebbe. Algido sfondo di un mondo da ipermercato votato all’igiene e alla pulizia, in cui infatti le due protagoniste si affaccendano con detersivi pop, e tuttavia attraversato da un ineliminabile conflitto…

(Gianni Manzella, “Il Manifesto”, 4 maggio 2003)

 

Una donna cerca il suo uomo al fronte, in una storia dove le apparenze si rovesciano in continuazione e le certezze appena costruite svaniscono. L’unica realtà permanente è quello stato di guerra, la carne da macello, il triturarsi di relazioni, sentimenti, umanità. Adriatico ha allestito uno spettacolo freddo, straniato, a volte respingente, spesso capace di aprire pensieri e inquietudini. Gli attori (Francesca Ballico, Francesca Mazza, Gino Paccagnella) porgono con secchezza i propri ruoli, cambiando prospettiva appena indossano un’altra parrucca, lasciandosi trasporatre, di tanto in tanto, dalla retorica per ghiacciarsi subito dopo. E quella parete rilucente di lavatrici evoca l’altro muro che oggi ci rinchiude, quello di un consumismo capace di farci svanire in figure senza contorno, intercambiabili.

(Massimo Marino, “Hystrio”, aprile-giugno 2003)