Il ritorno al deserto

Oggi torno al mio deserto personale, accompagnato da un autore che mi entra nel sangue e da lì, su su fino al cuore. Il mio legame con la sua scrittura è sconvolgente, fin da quando lessi in un sol fiato la notte poco prima della foresta.

Era la mia lingua. Era dentro.

Di lì in poi non l’ho più abbandonato, è tornato nei miei spettacoli, nei miei film, come una cosa che entra e esce dalle proprie abitudini. La sua lingua, mi ripeto, è un’abitudine, come fosse la lingua dei miei amori e dei miei affetti. Ci sono voluti però vent’anni di teatro e qualche pensiero sul cinema, uniti forse alla maturità dei quarant’anni per scegliere di metterlo in scena intero, senza “rileggerlo”, affidandosi semplicemente, amorevolmente al suo parlare.

E dunque eccomi qua.

Non presento mai gli spettacoli. Ho uno strano rapporto con lo scrivere di me. Ma questa volta ci vuole. il ritorno al deserto è un’emozione folle, selvaggia, strana. Mi ha restituito l’amore per il teatro in anni di difficoltà emotiva stringente, tallonante: mi offre in un sol colpo la possibilità di scoprire la forza di Shakespeare, la leggerezza di Goldoni, la spietatezza di Sade, la morbosità di Pasolini e tutto il contemporaneo della mia vita.

Tre lingue diverse si agitano in questo deserto. La lingua della religione, quella della cultura e quella dell’emarginazione, e si costruiscono il loro alfabeto attraverso tre grandi universi teatrali: il dialogo brillante, il monologo e il soliloquio.

E’ un deserto che ha uno strano rapporto col tempo e con le fughe. Tutti scappano da qualcosa, tutti temono l’ignoto, tutti sono occupati a cercare vie d’uscita senza trovarle.

O forse sì, le trovano, nell’unico amore possibile, quello tra fratelli incestuosi.

Per gli altri l’amore è semplicemente l’inesistenza. Questi personaggi disperatamente senza amore sono miei, sono nella pelle.

Scoprire che Koltès, come si addice ad uno sceneggiatore di fiction da casalinghe disperate, scrive i 100 anni della storia della famiglia Serpenoise, un piccolo racconto in prosa, che situa nel suo centro l’azione de il ritorno a deserto, mi fa amare tutto questo ancor di più. E’ finalmente l’ora di raccontare una saga, la storia di una famiglia e delle sue tare, che attraversa cent’anni (di solitudine) per finire sotto una palma, al sole, a chiudere gli occhi mentre scivolano addosso un gruppo di paracadutisti che flottano nell’aria.

Il deserto di Koltès è anche un noir francese, anni ’60, coi colori spessi e tinte bizzarre e d’atmosfera. E’ il Miles Davis di ascensore per il patibolo, e allo stesso tempo la guerra d’Algeria. Ma in realtà il ritorno al deserto è l’opera testamento, l’opera che sa di mattoni e di morte imminente. La tragedia dell’aids, come a Derek Jarman col suo magnifico blue, impone anche a Koltès di lasciare un’eredità. Un’eredità che pesa, come una pietra. Che senso ha partorire figli… “le donne dovrebbero partorire sassi, un sasso non da fastidio a nessuno, lo metti lì, in un angolo del giardino, e lo dimentichi” dice Mathilde dal profondo del suo deserto.

Per questo ho unito per la prima volta in questo lavoro il mio teatro al mio cinema. Dovevo unirmi io prima di tutto. Avevo bisogno di esplorare la profondità di campo e il primo piano, il soliloquio e il monologo, il sé e l’altrove legati indissolubilmente al dialogo, alla nostra parte sociale, al nostro dover stare nel deserto.

Non ho mai amato le commistioni.

“L’immagine è la prigione dell’anima” racconta proprio Jarman nel suo blue monocromo. Ecco perché penso che il teatro sia nella carne, nella voce, e nella disperata vitalità. Ma Koltès fugge oltre il teatro, prova a saltare altrove, mentre la terra gira alla sua velocità di sempre. Io posso solo provare ad inseguirlo, in quegli angoli inconfessabili dove il teatro, a volte non arriva…

(Andrea Adriatico, 1 marzo 2007)

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