Le cognate

RASSEGNA STAMPA

Andrea Adriatico fa un teatro carico di succhi acri, radicato negli incontri con i testi e con gli attori. Continua a raccontare il mondo contemporaneo, spaesato, piccolo-borghese, arrivista, questa volta con Le cognate di Michel Tremblay, uno dei testi più significativi della drammaturgia del Québec, scritto negli anni ’60 e pieno di umori di quel periodo, portato in scena per la prima volta in Italia nel 1994 da Barbara Nativi. Chiama a interpretarlo quindici attrici bolognesi, diverse per formazione, sensibilità, tutte esponenti significative del teatro di una città che difficilmente riconosce i propri talenti. Le esistenze portate in scena sotto l’allegria consumista sono vite da dimenticare, segnate dalla precarietà economica, intrise di moralismo bigotto perché hanno paura del mondo, per non sprofondare. Germaine ha vinto un milione di punti e invita sorelle e amiche a incollarli per sbattere loro in faccia la propria fortuna e farle schiattare d’invidia. E quelle stanno al gioco per derubarla dei salvifici punti, per vivere la loro, di illusione, per boccheggiare un po’ meno. Andrea Adriatico ne fa uno spettacolo colorato, pop, non incongruo con l’ambientazione più dimessa dell’originale, a dimostrare che oggi, sotto i lustrini di un benessere apparentemente alla portata di tutti, sopravvivono profonde, inestirpabili miserie. La caciara del chiacchiericcio delle comari si alterna a coretti intimidatori contro chi sgarra dalle regole (i figli, la sorella “perduta”); l’azione si blocca in deliziosi quadretti stupefatti al pensiero dell’oppio serale della tv, si scatena in una tombola dionisiaca, si ghiaccia in monologhi interiori che squarciano le maschere. Il secondo atto rovescia il punto di vista, andando ancora più vicino a questi esseri, osservati al microscopio quasi come organismi animali. Nonostante qualche lentezza, lo spettacolo scorre divertente e amaro, vivendo delle sue interpreti, spesso strepitose, una Francesca Mazza Mae West di parrocchia, un’Angela Baraldi che infila le ferite della vita nella balbuzie, una Tita Ruggeri spiritosa padrona di casa, un’Angela Malfitano sorella smarrita nei night, una rancorosa Anna Amadori e tutte le altre, ognuna con una scintilla particolare.

(Massimo Marino, “Hystrio”, ottobre-dicembre 2008)

Le cognate del canadese Michel Tremblay nella versione “pop” di Andrea Adriatico ha tutti i crismi dello spettacolo-evento. Perché ci ricorda Barbara Nativi, la prima a tradurlo ed allestirlo nel ’95. Perché Tremblay in questa tragicommedia rosa orchestra una straordinaria polifonia di voci, una sorta di coro moderno di casalinghe baccanti di provincia. Perché Adriatico con la sua invenzione di una scena double face passa dal “reality” ai siparietti musicali, alle confessioni solitarie in un crescendo di bisticci e trambusti rossiniano. Perché, infine, del cast “made in Bologna” tutto da lodare fanno parte due compagne di vita e di lavoro di Leo De Berardinis, le bravissime Francesca Mazza e Angela Malfitano.

(Nico Garrone, “La Repubblica”, 22 settembre 2008)

Quindici donne in un palazzone di una periferia metropolitana riunite per aiutare una di loro a incollare sugli appositi album un milione di bollini premio e permetterle di fare suo un intero “catalogo delle meraviglie”, dal centrino di plastica ai mobili per tutta la casa: regali, punti ottenuti dalla fortuna, parenti e amiche sedute allo stesso tavolo che aiutano la favorita dalla sorte, sono una miscela esplosiva capace di scatenare i peggiori istinti, le pulsioni più nascoste, le frustrazioni più temprate.

E la miscela puntualmente esplode in Le cognate, commedia che il canadese Michel Tremblay scrisse nel ’68, portata ora in scena da Andrea Adriatico per Teatri di Vita con una vivace compagnia impegnata a far vivere i personaggi tra cattiverie, snobberie da cortile, impeti razzisti, pregiudizi, perbenismi troppo fragili per resistere ai colpi della gelosia, dell’invidia e dell’infelicità in un quotidiano che frustra e opprime. La scena geometrica di Andrea Cinelli, composta da un grande numero di scatole grigie di cartone, macchiate qua e là di colori accesi, è la cucina in cui si ritrovano le donne. Donne inscatolate in sogni infranti che desiderano vincere qualcosa alla tombola della vita, fosse anche un oggetto inutile.

Con vistose acconciature anni ’60 e abiti di patetica volgarità, le protagoniste di questa lotteria di perdenti riescono a mostrare il peggio del loro animo, tra liti, unisoni da coro greco, canzonette e piccole confessioni-spettacolo. La regia di Adriatico privilegia i toni di un grottesco acceso e caratterizza con decisione alcuni personaggi rendendoli macchietta, ma non cancella la sensazione di cattività, di disfatta, di infelicità che permea la commedia, riflesso di una società illividita, ipocritamente conformista capace di distruggere ogni sogno, anche il più innocente.

(Magda Poli, “Corriere della sera”, 21 settembre 2008)

Incominciò nel ’68 con Le cognate (Les belles-soeurs) di Michel Tremblay la nouvelle vague teatrale del Québec che si liberava dell’egemonia della prosa classica francese. Ne mise in scena una prima edizione italiana nel ’95 l’attrice e regista Barbara Nativi, purtroppo scomparsa tre anni fa. A lei è dedicata la versione che Andrea Adriatico ha allestito all’India di Roma come primo appuntamento della rassegna Short theatre ossia, come ognun sa, teatro corto, breve. Quindi lo spettacolo inaugurale dura due ore e mezza.

Le cognate oggi rappresenta una specie di reperto archeologico: possiede andamento e atmosfera di un’epoca e di una provincia che si presentava al mondo con una sua specifica grettezza piccoloborghese, una sua quotidianità claustrofobica e muliebre: quindici donne impegnate a incollare punti su delle cartelle-premio, quindici pettegole che aprono le cateratte delle lagnanze e delle cattiverie. Il gioco è squadernare la ferocia femminile, mettere in scena una guerra di tutte contro tutte, una specie di mattanza verbale attraverso la quale offrire una critica di costume: ai comportamenti neoconsumistici anni Sessanta, alle frustrazioni e alle invidie che ne conseguono, alla riduzione in schiavitù mediante la stimolazione dei desideri materiali. Solo che non tutte le province sono uguali e anche se il regista s’impegna a “tradurre” la situazione dall’ambito del Québec a quello emiliano, grazie a un bel gruppo di attrici di scuola bolognese, resta pur sempre uno scarto, una inverosimiglianza. Sicuramente gli stessi demoni abitano la pettegola nostrana e la sua consorella d’oltre Atlantico, eppure dissimile pare la forma esteriore che le agitazioni dell’animo prendono. Sicché solo apparentemente la commedia di Tremblay s’eleva a paradigma di comportamenti globalmente validi di un certo status sociale, quello della piccola gente.

Resta piuttosto limitato a un’epoca e a un luogo geografico. Anche perché la traduzione italiana perde inevitabilmente la specificità linguistica de Les belles-soeurs, ossia il cosiddetto “joual”, dialetto del francese “québecois”. Su questo idioma popolare di Montréal si dispiega gran parte della vena grottesca e caricaturale di Tremblay, qui ovviamente impossibile da restituire per quanto Adriatico cerchi, e addirittura in parte riesca, a darne un’idea attraverso uno stile pop della sua messinscena. Tale limite è della commedia, non della regia, e ne determina crudelmente l’efficacia per l’interlocutore a cui si rivolge, mancando il testo di assurgere a una dimensione universale.

I provinciali sono tutti uguali, non le province.

(Marcantonio Lucidi, “Left”, 12 settembre 2008)

Scritto nel 1965 dal canadese Michel Tremblay, e rappresentato nel 1968, Le cognate approdò in Italia per la regia di Barbara Nativi nel 1995. Come spettacolo d’apertura di Short Theatre, rassegna organizzata da Fabrizio Arcuri, è andato in scena all’India per la regia di Andrea Adriatico e con le ragazze (le attrici) del gruppo bolognese Teatri di vita. Dico le attrici (o le ragazze) perché si tratta di uno spettacolo corale, in scena vi sono ben quindici personaggi, tutti parenti tra loro o vicini di casa. Sono chiamati al gran raduno da uno strabiliante evento toccato in sorte a Germaine Lauzon. Costei ha vinto un premio da un milione di punti. Il problema è che questi punti bisogna incollarli su appositi album, spediti dalla ditta che aveva bandito il concorso. Così, le rumorose, vocianti, stupefatte, invidiose, frustrate, bellicose amiche, o presunte tali, di Germaine Lauzon sono al lavoro. Ognuna ha il suo album e procede al compito che le compete. Quale il senso? Si tratta, come è evidente dalla situazione, del ritratto di una piccola società provinciale, che potrebbe essere dislocata in qualunque posto del mondo: Adriatico dice tanto a Montreal come nella Bassa padana. Dal punto di vista dell’impaginazione grafica, Le cognate di Adriatico è piuttosto simile al suo precedente spettacolo dedicato a Koltès. Vi sono una serie di cubi di tutti i colori, giustapposti per blocchi compatti, gialli o rossi o bianchi o azzurri. Prevale il nero, che fa da cornice e ritaglia la scena come se ci trovassimo di fronte a uno schermo in cinemascope (non a caso Adriatico è diventato regista di cinema). Vi sono poi i costumi e i colori squillanti delle quindici, ardimentose protagoniste – i loro costumi, le loro parrucche, la loro voglia di uscire dal coro, cioè di esibirsi. Non a caso, lo spettacolo da corale a tratti si fa galleria di monologhi. Ma la morale è prevedibile: Germaine sarà tradita, Adriatico rovescerà la scena, la satira da affettuosa si farà maligna: il quadro di un’epoca smisuratamente pop.

(Franco Cordelli, “Corriere della sera – Roma”, 10 settembre 2008)

Quindici donne vivono una maledetta vita di merda scandita dalla spesa, dalle gomme americane, lavori domestici e adolescenziali sogni frustrati. Da una parte si accumulano beni mentre dall’altra si smarriscono virtù. In anticipo sulle analisi della società dei consumi, l’autore Michel Tremblay mescola vacui discorsi, rosari, odi alla tombola e santificazioni di punti premio.

Andrea Adriatico confina le interpreti in un contenitore fatto di scatole che ricordano il muro che i Pink Floyd fecero saltare nel concerto di Berlino. Qui però i mattoni vengono solo spostati per fornire, nel secondo atto, una visione opposta, un punto di vista rovesciato che permette al pubblico di penetrare ancor di più la miseria dei personaggi.

Con un ritmo blando e molti riferimenti alla provincia canadese che si interroga sull’Europa, critica i film francesi e manifesta la sua lateralità culturale, il testo, di sicuro impatto tragicomico, perde gran parte della sua appetibilità trasformandosi in un pretesto per mostrare le storture piccolo borghesi di un gruppo di sciamannate bigotte, impossibilitate a nascondere punti deboli e deprecabili pulsioni. I dialoghi sono intervallati da noiosi monologhi, a volte anche drammatici, che dovrebbero bilanciare l’effervescenza delle scene corali ed invece finiscono per appesantire ed allungare ulteriormente il brodo, aggiungendo stereotipi triti ed esternazioni che vorrebbero far riflettere sull’ipocrisia del mondo moderno.

Le attrici, tutte molto preparate, faticano a collegare i loro personaggi alla scena ed al testo e finiscono per confrontarsi tra loro senza reali motivazioni, soffrendo, tutte, della mancanza di una tensione che non cresce mai e di un’ilarità che stenta ad investire il pubblico. Il tentativo di scardinare l’ipocrisia degli anni sessanta aggredendola con la follia dei giorni nostri fallisce poiché le derive dell’uomo consumatore, la teledipendenza, la libertà sessuale, l’ansia d’acquisto e la lobotomia di massa sono state ampiamente raccontate, ed il testo, senza veri modelli da distruggere e tabù da far crollare, finisce per svuotarsi. I personaggi, belli e colorati, inseriti in una divertente scenografia, stentano a raggiungere una platea che li osserva come piraņa in un acquario e dopo aver seguito qualche evoluzione e goduto di qualche morso, è pronto a passare ad un’altra vasca alla ricerca di un po’ di mordente.

(Andrea Monti, “Teatroteatro.it”, 10 settembre 2008)

Scatole nere, scatole rosse bianche e verdi: scatole ovunque per costruire la scenografia dello spettacolo Le cognate. Cosa contengono le scatole? Punti premio: sparpagliati nei vari contenitori ci sono un milione di punti premio vinti da una casalinga disperata.

La commedia di Michel Tremblay mette in scena la follia di 15 donne che trascorrono una serata a incollar punti mentre spettegolano nutrono invidie sognano e si accapigliano. Scritta nel 1965 Le cognate riflette l’ambiente bigotto e piccolo borghese di un Canada che stava per conoscere il boom economico, un mondo nuovo in cui “lo strumento subdolo e insinuante del marketing che, solleticando la vocazione del diligente collezionista con il gusto infantile del gioco, vuole convincerci che tutto è facile e tutto è regalato (sono 80 milioni le carte fedeltà oggi in Italia)”. Oggi la commedia viene riproposta da Andrea Adriatico, un regista impegnato che stavolta si cimenta e riesce a costruire una drammaturgia che da lui stesso è definita pop, nel senso più estremo che l’aggettivo popolare vuol significare. L’ambiente evocato non è propriamente la realtà quebecchiana descritta nella commedia originale, ma la vita della provincia bolognese, e le donne sul palco – non a caso tutte attrici della scuola bolognese – interpretano il ruolo di signore e signorine di un’italietta in via di sviluppo che cercano di far fortuna e di fare il salto di qualità con il matrimonio e la furbizia. Ma quelle messe in scena sono donne che hanno anche molto non detto: ed ecco allora che giocando tra il serio ed il faceto attraverso l’alternanza di dialoghi, monologhi e improbabili cori, si scopre una voglia repressa di cambiare, di tornare indietro per far scelte diverse e la voglia di riscatto e di affermazione.

Una commedia leggera ma con spunti, che pur sembrando un po’ datati, fanno riflettere sulla condizione femminile di qualche tempo… e riporta poi immediatamente al presente! a volte sembra che il ’68 il movimento femminista e alcune battaglie sulla libertà di scelta (borto, matrimonio, divorzio, studio etc etc) siano passate. Dimenticate.

Lo spettacolo è stato presentato in anteprima domenica 7 settembre 2008 all’interno della terza edizione della manifestazione romana Short Theatre – Ai confini della realtà. Un appuntamento dedicato alla ricerca sulla drammaturgia contemporanea che si svolge nel suggestivo spazio del teatro India che per l’occasione diventa luogo di confine, di relazione e osservatorio privilegiato non solo sulla realtà teatrale attuale ma proprio sulla realtà stessa.

(Valeria Iodice, “Eumagazine”, 10 settembre 2008)

Baciata dalla sorte, una signoraccia di provincia ha vinto un milione di punti con i quali si possono ordinare decine di regali da un catalogo pieno di meraviglie. Ma i bollini relativi ai punti vanno incollati sulle pagine di tanti album; la signoraccia convoca dunque per farsi aiutare la sorella, la figlia adolescente e ostile, nonché una legione di amiche, tutte sorrisi e congratulazioni ma in realtà molto invidiose della sua fortuna. Durante il pomeriggio dedicato alle operazioni emergono contrasti, nascono battibecchi, si raccontano in assolo situazioni individuali, mentre senza parere quasi tutte le ospiti trafugano i preziosi bollini ficcandoseli nelle borsette o addirittura imbottendone la sedia a rotelle della madre invalida di una di loro. Il punto principale è che tutte queste donne, che in comune hanno anche la religione cattolica (siamo nel Québec) e un atteggiamento esteriormente intollerante e bigotto, sono sconfinatamente volgari: urlano, si aggrediscono vicendevolmente alla minima provocazione, si abbandonano al turpiloquio.

Stiamo parlando naturalmente della commedia Le cognate di Michel Tremblay, che aveva già trent’anni quando la compianta Barbara Nativi la fece conoscere all’Intercity Festival di Sesto Fiorentino. Ricordando quel precedente, l’odierna riedizione diretta da Andrea Adriatico per Teatri di Vita, nata a Bologna Estate 2008 e attualmente ospite al Festival Short Theatre all’India di Roma, ha il difetto di trattare il testo come un classico, invitandoci ad assaporarne ogni sfumatura, mentre forse era invece il caso di snellire e alleggerire (altro che short, il tutto dura due ore più intervallo). Intendiamoci, la compagnia, quindici attrici tutte dell’area bolognese, è vivace e spiritosa, e la confezione, piacevole: scena geometrica fatta di grandi scatole grige, poi movimentata con altre di altre tinte che fungono da sedili o da gigantesche caselle per una tombola; coloriti costumi e vistose parrucche anni Sessanta di Andrea Cinelli con Maurizio Bovi e Isabella Sensini; luci forti e chiare di Tiziano Ruggia.

Ma, snocciolata nella sua integrità o quasi, la pièce risulta ripetitiva e le gag con cui si cerca di movimentarla, usurate. Ammesso che sia ancora possibile far ridere con una sorda, una balbuziente, una grassona, ci vorrebbe il massimo di leggerezza e di velocità, mentre qui si punta, al contrario, sull’eccesso, strilli assordanti, abbigliamenti assurdi, cafoneria spinta fino all’inverosimile. E’ vero, siamo nel grottesco: ma un simile accanimento contro comari della provincia canadese in un’epoca in cui lo stesso Canada era provinciale rispetto agli Usa non riesce a coinvolgerci. I miei ricordi saranno appannati, ma non mi sembra che la Nativi sottolineasse tanto la nazionalità e i costumi tribali delle sue donnette, né che la durata fosse altrettanto wagneriana. In più, oggi la teledipendenza e il consumismo sfrenato (anzi, ci dicono addirittura che il problema è opposto: non consumiamo abbastanza!) sembrano argomenti su cui la satira non ha più molto da aggiungere. Insomma, pur rinnovando l’apprezzamento per l’impegno delle quindici, alcune delle quali creano macchiette molto valide (di personaggi non è il caso di parlare), il recupero non mi è sembrato del tutto convincente.

(Masolino d’Amico, “La Stampa”, 10 settembre 2008)

Crudele e surreale, eppure in un certo modo così quotidiano, consueto. Le cognate di Michel Tremblay spiazza per la sua immediatezza, per quel suo insinuarsi in modo sottile dietro al velo di perbenismo che avvolge la società moderna. Perché quando il consumismo detta legge, la vincita inaspettata di un milione di punti può davvero rimescolare le carte in tavola. E risvegliare l’invidia, la gelosia, l’amicizia, il desiderio, la speranza, negli occhi delle donne invitate dalla padrona di casa per incollare, uno dopo l’altro, i punti della fortuna.

La prospettiva di un cambiamento, per una soltanto delle quindici donne sulla scena, è la causa scatenante di un dramma ironico e graffiante. La storia diviene soltanto un pretesto per creare una particolare ambientazione, altalenante tra episodi corali e momenti di toccante intimità. Ogni personaggio trova il proprio spazio d’espressione, sottolinea e difende la propria caratterizzazione, in un curioso e costante esperimento di ricerca di somiglianze e differenze.

Un’acconciatura, un abito, un’espressione vocale, rimandano immediatamente a un particolare gruppo di appartenenza. Le sorelle, le vicine di casa, le amiche della figlia, le conoscenti. Tutto sembra chiaro e stabilito, inquadrato, in una scientifica declinazione della femminilità nel pieno del rilancio economico. Ma le interazioni tra i personaggi, le parole non dette, i pensieri a bassa voce, ribaltano la situazione. Non c’è emozione, non c’è passione a vivere nel posto assegnato dalla società.

Un canto di liberazione ansioso e improvviso rilancia il ritmo della vicenda, esaspera il rito della tombola come strumento di riscatto sociale, amplifica la frustrazione di chi vive un esistenza di fatica e rinunce. Con la regia di Adriatico tutto è squisitamente reale, non c’è alcuna preoccupazione nel voltare le spalle al pubblico che soddisfa il proprio bisogno voyeuristico sbirciando le vite di chi si affanna sulla scena. Lo spazio teatrale è annullato da scatole ammassate che incorniciano ogni cosa, e che quasi cedono alla tentazione di chiudere quella quarta parete che le separa dalla platea.

A tratti sembra di fissare un vecchio schermo televisivo dai colori improbabili, o una vetrina di un negozio vintage, quando la luce cala e tutti i personaggi restano immobili come manichini di cera.

Una prova che convince e nasconde, sotto le parrucche e la maschera da pop art, l’umanità varia e dolente dei nostri giorni.

(Alessandro Pezza, “Teatro.org”, 7 settembre 2008)

Scritta nel 1965, e rappresentata per la prima volta in Italia da Barbara Nativi nel 1994, Le cognate è la celebre commedia “nera” in cui Michel Tremblay, capofila della drammaturgia del Quebec, attraverso le figure di 15 casalinghe frustrate e smaniose di riscatto traccia il feroce ritratto di una società ipocrita, meschina, abbagliata da ottusi sogni consumistici: tutto ruota attorno a una di loro, fanatica di concorsi a premi e quiz televisivi, che si ritrova vincitrice di un milione di bollini, garanzia di un intero arredo in omaggio, oltre a elettrodomestici, abiti, accessori. Colpita da un tale, improvviso benessere, la donna chiama a raccolta sorelle, parenti, amiche e vicine di casa di varie età – tutte piccolo borghesi come lei, tutte schiacciate dal peso della vta quotidiana – per aiutarla a incollare in fretta i buoni-acquisto sui loro album: l’adunata, che inizia in un’atmosfera festosa, si trasforma ben presto in un crescendo di veleni, pettegolezzi, invidie, cattiverie reciproche, fino a culminare nel maldestro tentativo di trafugare il piccolo capitale da parte delle subdole assistenti.

All’interno di questo affresco, tra patetico e un po’ mostruoso, si delineano alcune fisionomie individuali inquadrate con maggior spicco, come quella di Pierrette, la sorella trasgressiva che ha “fatto la vita” in un night, o di Angéline, la beghina che a 65 anni ha scoperto una parvenza di felicità attraverso frequentazioni equivoche.

Ma il taglio complessivo della vicenda, giocata su toni lividi, graffianti, resta corale, con alcune situazioni in cui gruppi di donne pronunciano davero all’unisono – come in un’antica tragedia – le proprie battute.

Il regista Andrea Adriatico, nell’affrontare il testo a Teatri di Vita di Bologna, ha scelto di calarlo nel clima ambiguamente patinato di un quadro della pop art, fra richiami ai colori accesi delle immagini pubblicitarie, parrucche bionde alla Marilyn, incongrue minigonne. L’impressione della citazione pittorica è accentuata dalla scena di Andrea Cinelli, che racchiude l’azione in una sorta di cornice: nella seconda parte, quella degli svelamenti dei disagi e dei misfatti, la cornice sparisce e l’ambiente e i personaggi del quadro, con un bell’effetto, vengono colti come da dietro. In questo modo, il regista centra senza dubbio lo scopo di ribaltare l’interpretazione della Nativi, che esasperava l’impatto grottesco di bigodini e rossetti sbavati, trasformando le protagoniste in maschere sinistre: qui il taglio algido, levigato, alla Andy Warhol si collega ai miti della civiltà del supermarket, ma rende i personaggi fin troppo sexy, perdendo il contrasto fra un aspetto da pie frequentatrici di parrocchie e un’assoluta mancanza di scrupoli.

Non si attenua, comunque, la perfidia del testo, ed è pungente l’apporto delle 14 attrici bolognesi coinvolte.

(Renato Palazzi, “Il Sole 24 Ore”, 6 luglio 2008)

Sono vite “da pidocchi”, da dimenticare. Si attaccano a un moralismo bigotto perché hanno paura del mondo, per non sprofondare. E’ desolato il quadro umano nascosto sotto l’allegria consumista nelle Cognate di Michel Tremblay, del 1968, uno dei testi più significativi della drammaturgia canadese francofona.

Germaine ha vinto un milione di punti e invita sorelle e amiche a incollarli per sbattere loro in faccia la propria fortuna e farle schiattare d’invidia. E quelle stanno al gioco per derubarla, per vivere la loro, di illusione, per boccheggiare un po’ meno. Andrea Adriatico ne fa uno spettacolo colorato, pop. La caciara del chiacchiericcio si alterna a coretti intimidatori contro chi sgarra dalle regole (i figli, la sorella “perduta”); l’azione si blocca in deliziosi quadretti stupefatti al pensiero dell’oppio serale della tv, si scatena in una tombola dionisiaca, si ghiaccia in monologhi che squarciano le maschere. Al debutto c’era qualche lentezza, un finale che potrebbe essere ancora più frenetico, ma anche uno spettacolo solido, amaro, divertente. Che vive delle sue 15 interpreti, strepitose, da una Francesca Mazza Mae West di parrocchia a un’Angela Baraldi che infila le ferite della vita nella balbuzie, da una spiritosa padrona di casa Tita Ruggeri alla sorella smarrita nei night di Angela Malfitano, da una rancorosa Anna Amadori a tutte le altre, ognuna con una scintilla particolare.

(Massimo Marino, “Corriere di Bologna”, 5 luglio 2008)

a barbara nativi