Senzaparole

Lo spettacolo fa parte della serie Non io nei giorni felici. Samuel Beckett visto da Andrea Adriatico.

Su questa serie è stato scritto l’omonimo libro che contiene visioni critiche e analisi saggistiche.

Si chiama Senzaparole, e si sviluppa come un teorema: un pornodivo, un letto e un’opera di Beckett: Atto senza parole, appunto. Tre ingredienti per dimostrare come l’universo delle relazioni del nuovo millennio sia cambiato al punto da aver bisogno al suo interno di una parola: pace.

Senzaparole è l’ultimo atto del progetto Non io nei giorni felici, che nel corso del 2009 Andrea Adriatico ha dedicato al drammaturgo irlandese, mettendo in scena le opere Giorni felici, Non io e Dondolo.

Lo spettacolo si sviluppa come un lavoro teatrale alla ricerca di un’identità del desiderio e della necessità dell’altro. Due personaggi si rincorrono in uno spazio scenico essenziale senza mai raggiungersi, alternando tempi emotivi come rette parallele verso l’infinito.

Il tutto con una dedica, quella al Bed-in di John Lennon e Yoko Ono, operando un’ennesima tralsazione di senso: laddove c’era una guerra affacciata su una società illusa da una libertà sessuale alle porte, oggi ci sono una guerra dell’anima e una pornografia che pervadono l’esistenza ponendosi come naturale affaccio del desiderio.

RASSEGNA STAMPA

Il segreto è nel corpo. Perché è il corpo che più della parola trattiene l’inesplicabilità totale, disperante, del desiderio, la sua tragica legge. Nel ricreare Atto senza parole di Beckett, Andrea Adriatico, che al drammaturgo irlandese ha dedicato gli ultimi anni di teatro (mettendo in scena Dondolo, Non io e Giorni felici), ha scritto una partitura fisica di azioni attorno al corpo di Carlo Masi, pornodivo gay di fama internazionale. Il suo fisico ingombrante, scolpito in muscoli irreali, diventa il centro di un sistema di relazioni amorose che si trasformano gradualmente, e inesorabilmente, in trappole ansiogene. Accanto a lui, un altro uomo (ma in una precedente versione era una donna), Marco Matarazzo, con la sua figura efebica di amante destinato a diventare presto padrone. Sul palcoscenico, solo pile di piatti bianchi, che Masi sposta e ricompone, assecondando un rituale di vita domestica. Se nell’originale testo di Beckett la principale relazione era tra un uomo e una bottiglia d’acqua, correlativo oggettivo del desiderio, nella trasposizione di Adriatico l’enigma diventa il corpo dell’amato. Ed è sulle dinamiche di potere e sottomissione che si dipana l’intera pièce, costruita per fulminee azioni fisiche: sguardo, avvicinamento, rifiuto, bisogno di consolazione, e poi di nuovo avvicinamento e rifiuto. Dove chi fugge diventa, fatalmente, l’ossessivo cardine del desiderio.

In scena fanno ingresso, uno per uno, sei enormi letti neri, alti e tenebrosi, che vanno ad occupare e occludere i vari spazi mentali di una relazione amorosa. Nella dimensione dell’accadere, si celebra la sensualità della vita, e poi il suo precoce sfinimento. La morte del desiderio. La perdita, la solitudine. Il vuoto assale da dentro il corpo voluminoso di Masi, che (pur essendo alla sua prima prova d’attore) con pochi movimenti riesce a dare la fragilità, la paura, la disperazione. E la tenerezza. Storia d’amore omosessuale, detta senza parole. Storia d’amore indecente. Storia privata senza eco sociale. Storia di due uomini dimenticati. I loro corpi che si denudano vengono usati in una forma delicata, pietosa, che spegne sul nascere ogni possibilità di voyeurismo legata alla figura di Masi.

Ma allora perché un pornodivo per rappresentare il mondo di Beckett? Senzaparole (scritto come un’unica parola) è, deliberatamente, una riflessione su che cosa sia oggi pornografia. “La dedica finale al Bed in di John Lennon e Yoko Ono opera una traslazione di senso – spiega Adriatico – Laddove c’era una guerra affacciata su una società illusa da una libertà sessuale alle porte, oggi ci sono una guerra dell’anima e una pornografia che pervadono l’esistenza, ponendosi come naturale affaccio del desiderio”. Non un giudizio morale su chi la pornografia la fa per mestiere, ma una messa a nudo della componente pornografica, oscena, che muove la macchina del controllo sociale. Accanto a John Lennon, le note di Vivaldi e dei Subsonica, un montaggio sismico di brani musicali che si interrompono brutalmente per poi ciclicamente riemergere in superficie, provocando nello spettatore degli assalti di profonda nostalgia verso ciò che tutti, almeno una volta nella vita, abbiamo perso.

(Katia Ippaso, “Gli Altri”, 10 settembre 2010)

Sei materassi gonfiabili neri in sei quadrati di luce, pile di piatti di porcellana bianca e corpi maschili, nudi, che riempiono la scena prima che sia invasa dal buio. Fine. Il pubblico si divide. Alcuni applaudono, alcuni fischiano Senzaparole, spettacolo della compagnia Teatri di Vita – quarto episodio di un progetto su Samuel Beckett dal titolo Non io nei giorni felici – ospitato dall’edizione 2010 del festival Short Theatre (4 settembre). Un festival che improvvisamente diventa bollente, hot, volendo utilizzare parole più affini ai temi trattati dallo spettacolo di Andrea Adriatico e alla presenza di un’icona italiana della pornografia omosessuale: Carlo Masi (divenuto celebre grazie alla casa di produzione statunitense COLT Studio e primo attore porno gay in Italia ad aver avuto un riconoscimento da parte della stampa nazionale). Sesso vischioso, morboso; esposizione corporea, sottomissione, potere e libertà. Dopo aver messo in scena le opere Giorni Felici, Non io e Dondolo, Teatri di Vita conclude il proprio percorso di ricerca sul drammaturgo irlandese rileggendo Atti senza parole. Nell’opera di Beckett, su una landa desolata, un personaggio dall’identità ignota viene controllato dal suono di un fischietto che manipola i suoi movimenti. Una caraffa d’acqua attira l’individuo che cercherà in tutti i modi di raggiungerla per soddisfare i propri desideri. Non riuscendoci, sfinito, l’uomo si accascerà a terra proprio a pochi passi dall’oggetto del desiderio che oramai non vorrà più prendere.

Senzaparole di Teatri di Vita si apre su una landa nera improvvisamente illuminata da sei quadrati di luce, rigorose figure geometriche disegnate perfettamente per terra. L’accendersi e lo spegnersi di questi quadrati scompone lo spazio in piccole caselle e detta il ritmo dello spettacolo come in un montaggio industriale di micro-sequenze sempre uguali a se stesse. Marco Matarazzo, languido manipolatore, stringe tra le mani il suo fischietto e controlla il corpo culturista di Carlo Masi. Il pornoattore è illuminato in frammenti di movimento (cade, si alza, fa un passo in avanti), ripetuti continuamente in tutti i quadrati e accompagnati dall’alternarsi di sette differenti tracce sonore (dai Subsonica a Vivaldi, dai Mùm a John Lennon and The Plastic Ono Band) che di volta in volta restituiscono al corpo dell’attore una differente carica erotica. In ogni cella di luce, pile di piatti di porcellana bianca raccontano di un ambiente intimo e allo stesso tempo paurosamente asettico, come un set cinematografico o fotografico in cui i corpi degli amanti si inseguono. Matarazzo diviene la caraffa d’acqua dell’opera di Beckett, Masi corpo vuoto e desiderante. Ogni fischio è un richiamo d’attenzione e una fuga, ogni piatto custodisce frammenti di desiderio, liquidi sessuali, perversioni, voglie erotiche sublimate in scambi di sguardi, di carezze fugaci, di perversi ammiccamenti e puntuali insoddisfazioni. Masi cerca l’itinerario giusto per raggiungere l’oggetto che provoca la sua attenzione, corpo che si denuda, che si spoglia e poi fugge, fino a costringere il pornoattore a uscire dalla propria casella, a sconvolgere la partita in corso su questa maniacale scacchiera. Quindi a mostrarsi totalmente nudo, sfinito e colto oscenamente in un’inespressiva dolcezza, privo di qualsiasi desiderio nei confronti della sua “caraffa dÕacqua”. Mentre materassi gonfiabili neri appaiono in ogni quadrato di luce, come in piccole stanze, ogni fischio di Matarazzo diverrà inutile. Denudato, steso di volta in volta su un letto diverso, l’attore cambierà continuamente fischietto finché non sarà consapevole della propria impotenza. Allora, al sovrapporsi delle musiche, corpi maschili, atomi di carne, riempiranno lentamente i letti di ogni quadrato per poi scomparire nel buio.

Adriatico costruisce uno spettacolo ossessivo e cervellotico che ha il sapore dell’ultimo Pasolini più che di Beckett. Nell’impianto narrativo il morboso desiderio sessuale imprigiona i corpi e li svuota restituendoli come pure carcasse di carne. “Sono passati 40 anni dal bed-in quando John Lennon e Yoko Ono dal letto della loro camera d’albergo lanciarono l’amore come idea di pace per il mondo. 40 anni dopo, ma forse anche da molto tempo prima, l’universo delle relazioni ha trasformato la camera da letto in un ring che non sa di pace” scrive il regista sul foglio di sala. Perché la scena di Senzaparole è un campo di battaglia, metafora di un’attuale, falsa e ingenua libertà sessuale che tramuta il rapporto amoroso in una lotta, il sesso in una caccia, e il corpo in un oggetto mediatico continuamente sovraesposto. La presenza maschile e ambigua di Matarazzo (che sostituisce l’attrice Rossella Dassu dando nuovi valori interpretativi allo spettacolo), congiunta alla figura/significante di Carlo Masi, sposta il piano di lettura in un orizzonte prettamente queer. Ogni movimento, ogni scivolare di corpo lascia emergere la poesia di una libertà richiusa tra saune, battuage e discoteche, racconta una continua caccia all’amore, ad un irraggiungibile istante di dolcezza; racconta di una solitudine permeata da metafore oscene, di un corpo omosessuale, palestrato, sensuale ed erotico, virilit&argave; per eccesso tramutata in oggetto del desiderio dall’industria del sesso.

Infine, riacquisendo valore universale, Senzaparole diviene il racconto di una società pervasa dalla pornografia, nelle parole di Adriatico “naturale affaccio del desiderio”. Uno spettacolo lento, ostico, “presuntuoso” e perversamente poetico.

(Matteo Antonaci, “Teatro e Critica”, 6 settembre 2010)

(…) Un iniziale desiderio di pace è quello che Andrea Adriatico propone rivisitando, nella sua personalissima maniera, Atto Senza Parole di Samuel Beckett. Lo fa in maniera soffocante e provocatoria, ma soprattutto senza dire una parola sulla scena: Senzaparole appunto. Un’ora tetra e profonda in cui mette assieme il più grande pornodivo della cultura gay internazionale, Carlo Masi, dei piatti sulla scena, dei letti gonfiabili, la musica dei Subsonica assieme a quella di Vivaldi e la dedica d’amore tra John Lennon e Yoko Ono in cui si aspira, da una camera d’albergo, ad un’idea di pace per il mondo. Tutto sembra non avere senso, eppure una scena così caotica in cui non parla nessuno ha un significato estremo e preciso. Due uomini si rincorrono, tentano di toccarsi, di raggiungere un desiderio d’affetto e sessuale; il loro movimento è scandito dalla musica, il loro spazio è delimitato da quadrati di luce e pile di piatti, il loro sogno è infranto dal rumore del fischietto che continuamente l’uno adopera per bloccare i movimenti dell’altro. Come se ci fosse qualcosa che impedisce la volontà umana e l’emotività, e che ne condiziona i gesti. Ad ogni suono brusco la musica si interrompe, l’uomo imponente fugge in altri quadrati di luce che con il passare del tempo riempie con dei letti neri gonfiabili. Cerca qualcosa, un ordine, un segnale, un qualcosa che non sia nero come tutto sul palco; prima è tutto geometricamente perfetto, poi diventa tutto sempre più caotico e confuso, la musica si mescola, il fischio arriva prima, l’uomo si spoglia. Lo spettatore attende una parola, che non arriverà mai. Metafora di un qualcosa di insito nella natura umana, si vuole fortemente un traguardo, forse una libertà sessuale, ma la ricerca estrema non permette di ragionare e rende tutto troppo confuso, al punto che, quando finalmente otteniamo la nostra conquista, desideriamo solo un po’ di pace. I due uomini sono vicini, completamente nudi, potrebbero sfogarsi, liberarsi dei loro limiti, ma non accade niente, ci si astiene, non si risponde più a nessun comando. Il buio e la luce impazziscono, nessuno cerca più niente, ogni angolo che prima era di fuga ora è una tana silenziosa e quieta di altri uomini, nudi anche loro, stravaccati, rilassati, in pace appunto. L’effetto scenico è sensazionale, si respira immobilità, silenzio, inconsapevolezza: si vuole talmente tanto da non avere nemmeno nulla per coprirsi. Resta un letto che prima era un campo di battaglia, ora il simbolo di una pace verso l’infinito. Il pubblico va via in silenzio, come se si sentisse parte della scena: non si è in grado di catalogare ancora tutto quanto, così tanto, eppure senza aver ascoltato nemmeno una parola. (…)

(Andrea Dispenza, “SaltinAria.it”, 6 settembre 2010)

Quasi una pantomima. Non una parola viene pronunciata. Un uomo e una donna in una scena buia. Illuminata soltanto da riquadri di luce perfettamente disegnati per terra, che nel loro accendersi e spegnersi, in quell’alternarsi continuo di campo e controcampo filmico, danno il giusto movimento e il ritmo ideale a uno spettacolo da seguire, e inseguire, con un occhio molto privato. Da guardare e lasciarsi sedurre da quel gioco geometrico di passioni contrapposte: quella di chi insegue e quella dell’altra, l’inseguita che detta i tempi e le regole di questa divertita (e anche divertente, nel suo esito finale) celebrazione dell’amore e del caso, forse più vicina al teatro di Marivaux che a quello di Beckett. Se non fosse per quegli insistenti colpi di fischietto, che danno sempre l’inizio di un nuovo quadro, o “sequenza” scenica. Un materasso-letto nero, gonfiabile, pile di piatti di varia altezza, in porcellana bianca luminescente, poggiati per terra, creano uno spazio-ambiente molto libero ed elegante, da set fotografico, come di corpi e oggetti pronti a una riproducibilità cinematografica, o alla pubblicità patinata di raffinati spot televisivi. Ma è il tessuto narrativo, tutto teatrale, della rappresentazione a essere convincente. In effetti, lo spettacolo di Andrea Adriatico, con quel suo fluido, suggestivo e avvincente linguaggio scenico tutto in bianco e nero, sembra rinviare, anche in maniera abbastanza esplicita, all’universo poetico e letterario del grande scrittore irlandese. Nel finale, altre due coppie si aggiungono alla prima, con le stesse modalità di comportamento, come in una macchina celibe infernale, dove tutto è destinato a ripetersi all’infinito, finché il filo (immaginario) del racconto si spezza e la storia (quel ritmo tragico, o di commedia) non può più continuare: quel mondo fatto soprattutto di suoni, segni, sguardi, di desideri insoddisfatti, di discorsi amorosi inudibili (perché qui è il linguaggio del corpo che ha deciso di esprimersi), si ferma, caduto nel vuoto assoluto di una immedicabile, seppur quieta, solitudine. Intrigante, e abilmente funzionale all’azione scenica, la colonna sonora che mette insieme alcuni Concerti di Vivaldi, Lennon (Give peace a chance), Pixies (Where is my mind) e Mum (The ballad of the broken birdie).

(Giuseppe Liotta, “Hystrio”, gennaio 2010)

Andrea Adriatico, regista e fondatore di Teatri di Vita, propone una personalissima rilettura di Atti senza parole. I testi di Beckett divengono fonte d’ispirazione e di stile per uno spettacolo mimico e sonoro che fonda le sue radici sulla scoperta di un’interessante associazione intima con l’essenza dei due brani. L’operazione risulta piuttosto rischiosa perché la suggestione visiva che si viene a creare è alquanto distante da quella che è l’idea originaria dell’autore. L’atmosfera indefinita e straniante, che caratterizza la drammaturgia mimica di Beckett, viene sostituita da una dinamica che affronta un argomento piuttosto comune e concreto nella vita attuale, ossia l’attrazione tra due persone e il rapporto di potere che si viene a creare e che può spezzarsi prematuramente. Un uomo (Carlo Masi) si muove al comando di un fischio in uno spazio diviso in sei quadrati di luce, occupati da pile di piatti e, successivamente, da materassi. A controllare il fischio è una donna (Rossella Dassu) che pian piano attira a sé l’uomo, guidandolo, da uno spazio all’altro, in un lento e ritmato spogliarsi. Pur tentando di restare il più possibile universale, astraendosi dalla specificità di una situazione con due protagonisti e una vera e propria storia, Adriatico circoscrive il meccanismo di stimolo e repressione della volontà – contenuto nel primo atto mimico di Beckett – ad una tematica come quella della sessualità, che difficilmente riesce ad uscire dalla sua stessa scatola o permettere allo spettatore di scavare ed immaginare altri orizzonti possibili.

L’associare il crudele gioco sulla volontà ad un rapporto concentrato e delimitato all’attrazione è un processo che cattura comunque efficacemente, facendone esplodere la carica e le potenzialità in un ripetitivo e a volte lento procedere goccia a goccia. L’alternarsi di luce e buio che delimita gli spazi sembra sottolineare ulteriormente la cura dei movimenti e dei dettagli. La ripetitività dei momenti che fa crescere l’intensità dell’azione è accompagnata da un’interessante scelta di musiche, che vengono poi utilizzate in un particolare epilogo: una suggestiva videoinstallazione di Roberta Bononi che riprende testi e scene dello spettacolo per fermare in un’unica immagine l’essenza del lavoro del regista.

(Maria Conte, “Il Tamburo di Kattrin”, 29 ottobre 2009)

Andrea Adriatico aggiunge un tassello alla sua trilogia beckettiana. In Senzaparole, con Carlo Masi e Rossella Dassu, rilegge Atto senza parole del drammaturgo irlandese. Dell’originale rimane poco: la metafora del desiderio sfuggente, irraggiungibile, e quei suoni di fischietto che muovono l’azione. In scena un uomo e poi una donna si rincorrono in sei riquadri che di volta in volta appaiono e scompaiono grazie alla luce. Ci sono pile di piatti bianchi nella scena scura, e musiche techno, barocche, minimal: incalzano i due che a loro volta si incalzano, si cercano, si offrono qualcosa e si fuggono o semplicemente si perdono. La tecnica del campo e controcampo cinematografico scandisce i passaggi, fino alla nudità, che non si trasforma in contatto ma in moltiplicazione di figure distese su letti lontani. Non si capisce perché il regista abbia scelto per il ruolo dell’uomo una star del cinema porno gay. E si esplicita un po’ troppo, invece, Beckett, incarnando in una donna i suoi ambigui oggetti, un alberello, una caraffa con la scritta “acqua”.

(Massimo Marino, “Corriere di Bologna”, 18 ottobre 2009)

Sabato sera a Teatri di Vita per la quarta e ultima puntata di Non io nei giorni felici, la rivisitazione beckettiana di Andrea Adriatico: Senzaparole con Carlo Masi e Rossella Dassu, con la partecipazione di Serena Di Biase, Sara Kaufman, Federico Muzzu e Saverio Peschiera. Ispirato ad Atto senza parole (I) di Beckett, modificato nell’oggetto del desiderio: al posto della brocca d’acqua l’uomo insegue una donna in una scena scarna suddivisa in sei quadrati di luce, arredati con pile di piatti di ceramica ed in seguito da letti (gonfiabili). La frustrazione del crescente desiderio sessuale dell’uomo e della donna, che lo comanda, ne arbitra l’agire tramite il suo fischietto e ne condiziona i movimenti sulla scena all’inseguimento di lei. Il meccanismo imposto dalla donna, inizialmente perfetto (a fischio corrisponde l’accendersi e lo spegnersi delle luci e della musica), col crescere del desiderio (e della nudità) si fa più impreciso, fino alla perdita del controllo sull’uomo, che si astiene proprio quando potrebbe ottenere il soddisfacimento sessuale tanto inseguito. Fosse finito qui lo spettacolo sarebbe stato forse migliore; invece, con il crescere ed il sovrapporsi delle muische, i 4 letti rimasti sono progressivamente occupati da altre due donne e due uomini, monadi isolate e (si suppone) insoddisfatte.

Oltre a richiamare il pasoliniano Teorema, lo spettacolo sembra quasi un racconto morale di Rohmer: ‘in amor vince chi fugge’ e, per la protagonista femminile, ‘chi troppo vuole nulla stringe’. Ben fatto senza dubbio, belle le musiche e le luci, solo (forse) un po’ “troppo cerebrale…”.

(“Eratostene viaggi”, 18 ottobre 2009)

Andrea Adriatico aggiunge un nuovo allestimento alla serie beckettiana iniziata la primavera scorsa. Visto in prima nazionale il 12 ottobre scorso, Senzaparole è il quarto spettacolo dopo Dondolo, Non io e Giorni felici presentati al pubblico dei Teatri di Vita da tre straordinarie donne e interpreti del teatro contemporaneo: Angela Baraldi, Francesca Mazza ed Eva Robin’s (con Gianluca Enria). Stavolta l’unico personaggio di Atto senza parole I è impersonato dall’icona gay dei diritti per gli omosessuali e modello Carlo Masi, qui al suo debutto in teatro. In un quadro surreale, di malinconia crepuscolare, gli si affianca Rossella Dassu, attrice già diretta da Adriatico in alcuni precedenti lavori. E’ un’azione scenica muta e plastica dove parlano solo i movimenti interrotti dal suono aspro di un fischietto che comanda ed esorta, esasperando ogni impresa dell’uomo. Adriatico segue un sentiero drammaturgico e letterario che attraversa l’opera beckettiana (non solo teatrale ma che ritroviamo anche in alcune sceneggiature televisive) e al tempo stesso la sconvolge in una personalissima intenzione. Non più una scena dominata da una luce abbagliante come in Giorni felici né un monologo di bocca come in Non io.

Senzaparole si inserisce tra il gesto lento, ripetuto e solitario di Dondolo e l’attesa, l’indecifrabilità del luogo come Aspettando Godot. E’ un teatro senza parole, strutturale, non trascurabile. Nella cornice cupa e misteriosa lunghe pause a nero, tra trepidazione e suspense, si intrecciano alla musica classica e trip-hop ambient, all’immobilità delle azioni ma, soprattutto, dei silenzi. Un uomo e una donna, due personaggi che riflettono gli spazi immensi attorno o infinitamente piccoli del (loro) vissuto. Il suono del fischietto fluidifica i micro-spostamenti lungo la scena in stile polaroid, come fil rouge spinge a compiere singoli gesti, ripetuti e insoliti, alla conquista di un nuova casella. Adriatico sperimenta e vent’anni dopo si confronta ancora col drammaturgo con cui debuttò a teatro.

La gestualità diventa carnale strumento linguistico. Un set di piatti in porcellana traccia un rigoroso itinerario che obbliga Masi a seguire la Dassu, a uscire dal buio, fino a esibire un nudo integrale e vivere un momento fugace di luce. Se ci fosse una telecamera sarebbe fissa, quasi ossessiva nel suo curioso scrutare questa essenziale replica dell’azione. L’audace provocazione nel gioco coreografico, erotico e visionario, ideato da Adriatico, sorprende fino alla fine: come nudi artistici che si impressionano su tela, altre quattro figure (insieme a Masi e Dassu) vengono esibite e ostentate senza volgarità, senza azioni, senza parole.

(Viviana Dasara, “lospettatore.it”, 16 ottobre 2009)