Solo. Il fondamento degli incurabili

RASSEGNA STAMPA

“Il buio, oltre la chiesa. Spettacolo da profondissime tenebre, settacinque minuti nella quasi totale oscurità, un senso incombente di sgomento e morte che ti ghermisce dal primo secondo e non ti molla più. La forza del destino, probabilmente. Cosa, sennò? Due i protagonisti, al di là del cast: il buio, appunto, e la chiesa, San Mattia, che è poi in realtà una ex chiesa”

(Francesco Zucchini, “Mattina”, 17 marzo 1996)

 

“La vertigine della solitudine, la privazione del confronto con l’altro che è sempre esperienza per eccellenza (ma anche il vuoto, il nulla, l’estraneità che seguono a questa rinuncia) sono i temi ispiratori ricavati dalla poesia di Brodskij e dalle ossessive speculazioni di Emmanuel Levinas. Almeno così ci dice l’autore, calando gli spunti delle visioni di partenza in una specie di performance emotivamente geometrica, da una parte impostata sull’essenza del luogo come risuonante punto di confine, dall’altra guidata dall’esperienza concreta del distacco.

Ci troviamo di fronte alla traduzione sensitiva di una celebrazione laica, come un video di Beckett tra quelli più angosciosi cavati fuori da chissà quale veglia, con l’aggiunta delle lente e compiaciute simmetrie che Wilson imprimeva ad un simile calarsi in una dimensione altra”

(Sergio Colomba, “Il Resto del Carlino”, 17 marzo 1996)

 

“E se la tecnologia, che ormai fa parte della nostra civiltà, si manifesta soprattutto nei tre schermi televisivi, la parte figurativa si affida, nel freddo buio totale dello spazio, a quattro figure buie sì, ma alluse da una fredda illuminotecnica che ne accompagna anche gli impauriti movimenti per farsi poi poeticamente bella nei doppieri (ricchi di candele di cera) che scandiscono di luminosità viva e vera le ultime parole del testo”

(Odoardo Bertani, “Avvenire”, 20 marzo 1996)

 

“Si entra. Si è accolti da una sospettosa attesa nella più completa assenza di riferimenti se non alcuni computers. Uno di questi recita versi come a delimitare un’intuibile area d’azione. Il silenzio è rotto dai passi e dallo sbattere di un bastone a terra, come si muove chi non vede. Restaurato e privo di paramenti religiosi, questo spazio si rivela allo spettatore per approssimazioni visive in successioni. campionate dal regista come fossero ripetuti fraseggi coreografici, mozzati e consumati sul nascere, ogni oggetto e spostamento che investe la scena avverte e condiziona chi guarda”

(Paolo Ruffini, “Liberazione”, 23 marzo 1996)

 

“Un lavoro intenso e ovviamente introspettivo, in cui la drammaturgia dell’ambientazione talvolta prevale su quella delle parole, a loro volta filtrate dalla voce metallica ed estraniata di un computer, ma anche scandite da suoni registrati di campane che accompagnano un video centrato sugli spazi aperti e sulla fuga e dunque su aspetti contrapposti a quelli che segnano il mondo interno raccontato nello spettacolo. Una scelta, quella del particolare tipo di drammaturgia, tanto innovativa quanto soggettiva, quasi una firma dell’Andrea Adriatico dell’ultimo periodo, sempre capace di trasmettere un’inquietudine figlia o della fascinazione o, per restare al tema dello spettacolo, del dubbio”

(Stefano Tassinari, “Tg7 – Rete 7”, 29 marzo 1996)

 

“Il primo video snocciola lunghe frasi sullo schermo, recitandole anche con una voce sintetica: sono brandelli del Testori della Conversazione con la morte. La voce metallica echeggia sotto le volte buie della chiesa, mescolandosi a un seriale e ipnotico suono di campana, quel parlottio confuso e innaturale lascia intendere alcune parole chiave, l’anima, la vita, la madre, lasciandole sospese in un dubbio angoscioso, proprio come se quell’inconsistente e monocorde recitazione le privasse ancor più di senso.

Il lavoro di Andrea Adriatico è questo: costruire un lungo momento di forte suggestione, attanagliare lo spettatore in un reticolo di sensazioni sottili, far balenare intorno a lui parole sconnesse ma significative, immagini irreali e simboliche. Si tratta infatti di una meditazione sul vedere, sul saper guardare se stessi, i propri spazi interiori di sofferenza e di solitudine. Ma ne siamo capaci? Subito dopo che gli spettatori si sono seduti entra un uomo con un bastone bianco. E’ un cieco? Forse, ma è lui ad accendere una lampadina, aprendo una porta. E anche le altre figure costruiscono geometrie di luce, sono dei personaggi in tuta nera e occhiali, con una torcia legata al ginocchio che illumina per tagli obliqui gli stucchi residui della volta, o donne ottocentesche con candelabri a sette braccia”

(Antonio Audino, “Il Sole 24 Ore”, 31 marzo 1996)