6.

“Siamo abituati a demonizzare le bugie. Eppure non sempre la bugia è un crimine. Il titolo di questo lavoro è bugiardo. Dichiaratamente bugiardo, volutamente bugiardo. E come ogni bugia contiene una verità scomoda della quale è difficile fare a meno.

6. è la mia passione per i numeri, oltre che la passione per l’identità doppia di questo particolare segno, ambiguo, bisegnale, bifronte. Tutto ciò che contiene allo stesso tempo verità e bugia mi esalta. Ecco perché forse gioco con l’arte della finzione umana. Perché quando ero bambino mi hanno detto sempre che fare teatro era fare finzioni. Solo dopo ho scoperto che fare teatro, per un attore, era tutt’altro che fare finzioni. Era semmai progettare riflessi d’identità sconvolte, usare le bugie di un personaggio, di una faccia, di un’esistenza a servizio della storia della propria vita. Semplicemente complessa. Questa è la lezione che raccolgo da Pirandello. E questo Pirandello mi insegna: ama gli attori, la loro arte, la loro identità fragile e dura. Io, cacciatore sconvolto “dell’attore corpo manichino”, giovane ossessivo amante di corpi da agire, scelgo oggi l’arte della bugia vitale. Complessa, articolata e delinquenziale origine di una frattura vicina a verità non necessarie.

6. moltiplica volutamente gli autori, si finge cosa che non è e che in fondo è.

6. indaga sui mondi gemelli, sulla sinfonia dell’addio di Haydn, sulle virtù dei cartoni animati, prime finzioni necessarie, sul teatro di Copi, sulle necessità del silenzio.

E disegna attraverso straordinari compagni d’avventura cui lascio il compito di rappresentare, soli, compiuti, necessari, un curioso dramma che in fondo è una bugia.”

(Andrea Adriatico)

 

a stefano casagrande, 6…sempre

RASSEGNA STAMPA

(…) Estremo, disperante e autoironico, l’ultimo spettacolo (in scena alle Saline) di Andrea Adriatico – che l’anno scorso, sempre con i Teatri di Vita, portò l’indimenticabile Madame de Sade – ha per titolo il numero più ambiguo e inquietante: 6. Come il demonio dell’Apocalisse, come il verbo singolare, come i Sei personaggi di Pirandello. 6. come la somma dei doppi in scena, due uomini e due coppie di donne per far esplodere le Quattro gemelle di Copi. (…) Il risultato è una mise en abyme in forma geometrica: tanto gelido e folle affonda Pirandello dentro l’uomo, quanto Copi riporta tutto in superficie a un’umanità che muore e risorge a suon di siringate d’ogni droga, in un tourbillon esasperante: prima si è insofferenti e poi si ride, ma si ha anche il tempo di pensare che ridotta così, a carne, l’umanità non può che augurarsi l’autoestinzione. (…) 6. legge il presente come un requiem all’errore che è l’essere umano (…)

(Monica Perozzi, “L’Unione Sarda”, 29 aprile 2001)

 

(…) E’ un balletto di corpi che cadono e si rialzano, con ritmici colpi di scena da vaudeville surreale, in cui la morte è finzione al pari della vitalità fittizia supportata dalle droghe o dall’avidità di dollari e diamanti. Un dialogo fluviale che annega l’angoscia in gag, su un distacco dalla realtà fra battute derisorie e fulminee, scandito da effetti sonori di cartoni animati, che sottolineano grottescamente i ripetuti e reciproci assassinii, o annunciano le vivificanti iniezioni con uno scalpitare di zoccoli e un nitrito. Giocano brillantemente con la finzione le “quattro gemelle” Francesca Ballico, Isabella Carloni, Francesca Mazza e Dalia Zipoli, mentre gli altri personaggi sono interpretati da Marizio Rinaldelli Uncinetti, Elena Souchilina e Anatoli Zaitsev (…)

(Roberta Sanna, “La Nuova Sardegna”, 30 aprile 2001)

 

(…) Di bellezza e crudele cinismo è tratteggiato 6.: bellezza nell’estremo e raffinato gioco delle parti, ma anche percezione estetica (formalmente impeccabile lo spettacolo), e per questo abissale, lacerante, come ancora estremo è il dato puramente cabalistico nel costruire una partitura dove prendono a vivere identità multiple, personaggi identici pur dotati di una propria autonomia; forse sono sfaccettature dello stesso individuo, molteplicità nella singolarità, unicità nella frammentazione. (…) Eppure quelle quattro donne sono lì per celebrare il vuoto cercando di sopprimersi a vicenda, un delirio della morte e, appunto, un paradosso dell’esistenza che ci costringe a guardarci in faccia ridendo di noi, schernendoci; davvero il gusto camp pervade quel microcosmo infero ma è l’ossessione poi che ne deforma l’andamento. E anche l’ossessione è un segno drammaturgico ricorrente nelle composizioni del regista: torna l’ossessione della parola, che si avviluppa, stordisce, nel gioco della finzione diventa una parola tagliente indossata in questo 6. da attori notevoli; ossessione del tempo, dilatato, quasi immobile all’interno del quale si muovono creature che sembrano azionate da un alto voltaggio di corrente elettrica alle quali è di colpo sottratta; ossessione dei meccanismi scenici, una partitura gestuale quasi coreografica straniante e rarefatta. (…)

(Paolo Ruffini, “Primafila”, giugno 2001)

 

La regia di Andrea Adriatico risulta precisa e accattivante, capace di organizzare l’impianto scenico sulla base di sorprendenti e non stagnanti triangolazioni e geometrie. Ottima anche la scelta di una scenografia votata all’essenzialità, ma capace di sorreggere il difficile gioco drammaturgico e attoriale di tutta l’opera. Lo spettacolo, nonostante la complessità del tema trattato, appare veloce e coinvolgente, senza cadute di tono, aiutato anche da un divertente impianto rumoristico. L’esperimento di unire fumetto e teatro, corpo e parola è perfettamente riuscito tanto da far intravedere la possibilità di una nuova via da battere per sperimentare sulla scena.

Un altro bersaglio centrato per l’ensemble dei Teatri di Vita.

(Valerio D’Annunzio – Francesco Piotti, “Flash Giovani”, febbraio 2002)

 

Il teatro di Andrea Adriatico è costruito per strati, intrecci, sovrapposizioni. I suoi spettacoli, sotto la superficie nitida, ottenuta mescolando rigore formale e inquietudine esistenziale, nascondono trappole a molti fondi. Apparentemente 6. – una produzione dello scorso anno, ripresa in questi giorni nel bel complesso dei Teatri di Vita, edificato caparbiamente da Adriatico e dalla sua compagnia trasformando una palestra abbandonata – è addirittura uno spettacolo cartesiano. Aperto da parti di un monologo di Koltès, si inerpica in un grottesco testo dell’attore fumettista franco-argentino Copi commentato da frasi pirandelliane, per concludersi ancora con le iniziali parole di Koltès sulla menzogna e la verità. Testi incastonati in una teoria di scatole cinesi, teatro allo specchio, giochi di rimandi e di rovesci. Se in principio sono in scena due uomini in camicia e mutande, stesi su due poltrone, e una donna vestita da hostess parla davanti a un siparietto di camici bianchi, alla fine sulle chaise-longue sono stese le donne della farsa di Copi, sbucate a sorpresa da quel siparietto, e i camici saranno indossati da tutti i personaggi, trasformati in medici di una lezione di anatomia dei sentimenti, delle finzioni e delle possibilità della verità. Uno specchio sta in terra, nel centro della scena, sezionato da irregolari linee a mosaico (la scena e i costumi sono disegnati da Andrea Cinelli). Su di esso si svolgerà la farsa Le quattro gemelle di Copi, sarabanda nera di uccisioni da fumetto o da cartone animato, botte, cattiverie, delitti, droga e odio su tacchi altissimi e gonne con lo spacco fra due coppie gemelle pronte a cascare, a morire, a rinascere, a bucarsi nelle vene, nei glutei, nelle gengive, a schizzare nelle membra accompagnate da onomatopeiche scariche sonore. Qualcosa di terribile e comico, finto e vero. Un esercizio di recitazione che fila leggero agli occhi dello spettatore, ma che richiede un controllo e un’abilità fenomenale. Ottenuto, immaginiamo, con un regime di prove durissimo. Francesca Mazza, Francesca Ballico, Isabella Carloni e Patrizia Bernardi sono bravissime a reggere il gioco imposto dal regista, delineando maschere stralunate e scattanti, vero cuore dell’opera.

Ma prima e dopo la farsa sta la cornice, interpretata da Gino Paccagnella, Elena Souchilina, Anatoli Zaitsev, asciutti lontani, efficaci. Sorretta da un ulteriore “testo”, La sinfonia degli addii di Haydn. Se la cabala sul numero sei è infinitamente declinabile (i Sei personaggi in cerca di autore, “sei” numero e “sei” come tentativo di essere, un numero bifronte, che può rovesciarsi in nove; e poi tre volte sei l’anticristo, e via dicendo), l’immagine dell’addio, e l’inseguirsi sfuggente e incitativo dei nuclei tematici haydniani introducono un’ulteriore sospetto: quello di un amore per la metamorfosi, una tensione fra aspirazione a essere e impossibilità di ancorarsi a una realtà che non può che risolversi in gioco, apparenza, eccesso trash, giustapposizione di brani che non riesce a mutarsi in unità. . In Koltès, e nella sua disperata ricerca di verità, come nel male delle parole e dei ruoli denunciati da Pirandello, è già contenuto il vaniloquio grottesco delle gangster di Copi. Nell’inevitabilità della morte sta il bisogno di esorcizzarla, come la predica di una qualche verità prelude allo sberleffo e sfuma nel balletto circense, e il senso e l’identità stanno sempre altrove. Il calore delle passioni e le smorfie dei corpi sono accostati senza alcuna possibilità di risoluzione alla freddezza necessaria dei pensieri. Così la libertà del sesso diventa prigione e “le donne dovrebbero partorire sassi” e l’analisi clinica aspetta ogni follia, ogni devianza, ogni desiderio. Le ben architettate geometrie armoniche e sonore di Haydn evadono nella rumoristica della farsa, e ogni geometria prelude al caos, e non bisogna mai dire a qualcuno che hai bisogno di lui o che ne senti la mancanza o che lo ami, perché acquisterà potere su di te e terrà le tue redini… Perché bisogna mentire, o dire “basta con le bugie”, con le parole di due scrittori (Koltès e Copi) che hanno vissuto, giocato, rischiato. Che sono morti di Aids. Che hanno affrontato, come Pirandello, senza paura di oltrepassare territori conosciuti, il vuoto, per cercare cosa di umano si può ritrovare sotto le forme, i ruoli, dai quali vorremmo e non possiamo evadere.

(Massimo Marino, Tuttoteatro.com, 11 febbraio 2002)

 

Il più immediato livello di lettura dell’ultimo lavoro di Andrea Adriatico è un gioco numerico che lo spettatore viene invitato a decifrare. Lo spettacolo si intitola 6. E la mente corre ai sei più celebri personaggi, vaganti alla ricerca di un autore che completi il giro della loro parabola di vita. Ma il testo che Adriatico pone al centro della rappresentazione è Le quattro gemelle di Copi. Di conseguenza la scena si dispone immediatamente per simmetrie multiple; una costante del lavoro visivo del regista.

Due chaise longue di Le Corbusier ai lati della scena con due uomini sdraiati che accennano movimenti seriali, al centro un quadrato di specchio che sarà il palcoscenico delle quattro donne, moltiplicandone le figure all’infinito. A complicare il conto c’è però un’isolata figura femminile che introduce e chiude l’azione con alcune riflessioni di un altro autore intriso dei neri umori del disagio contemporaneo, Bernard Marie Koltès. Dunque quello di Andrea Adriatico è un teatrino meccanico dove gesti e azioni sono ripetuti in sequenza, e poi spezzati, accennati e poi negati, la scienza dei numeri una volta enunciata sembra annullarsi in se stessa, come a ribadire che anche l’esattezza di quel linguaggio è illusoria, la misurazione matematica del mondo crea soltanto la percezione di un limite. E allora il testo di Copi, ironico e amaro autore franco-argentino morto di Aids nell’87, sembra scritto apposta per quel teatrino immaginario, con le due coppie di gemelle che si odiano uccidendosi e resuscitando in un vorticoso succedersi di iniezioni di eroina, furti, violenze e quindi cadute e corse con i tacchi a spillo sul pericoloso piano di specchio. Un vortice di deliranti coazioni a ripetere, nella follia di quei palindromi umani, scomposti e ricomposti in un numero infinito di possibilità.

Le sequenze delle quattro donne di Copi assumono connotati da cartone animato, ma a incorniciarle interverranno i due uomini citando proprio Pirandello e i personaggi evocati nel titolo, accennando solo le frasi chiave, legate all’inganno della parola. Questo epigramma fa dunque da sintesi a quello smarrimento dell’umanità che è soprattutto lo smarrimento della comunicazione, e di cui Copi ci viene qui indicato come significativo rappresentante, proprio perché pone in scena un grottesco gioco di parole risucchiato nell’assurdo e nel vuoto assoluto.

Quantomai energiche e grottesche le quattro sorelle interpretate da Francesca Ballico, Patrizia Bernardi, Isabella Carloni, Francesca Mazza, osservate dai due gelidi personaggi maschili di Gino Paccagnella e Anatoli Zaitsev e con Elena Souchilina ad aprire e chiudere, nella sua individualità, il rifrangersi delle tante figure.

(Antonio Audino, “Il Sole 24 Ore”, 17 febbraio 2002)