Dondolo

Lo spettacolo fa parte della serie Non io nei giorni felici. Samuel Beckett visto da Andrea Adriatico.

Su questa serie è stato scritto l’omonimo libro che contiene visioni critiche e analisi saggistiche.

RASSEGNA STAMPA

Mai un corpo nudo di donna è stato così disperante, asessuato e comunicativo come quello di Angela Baraldi che dopo parole in penombra si rivela sempre più vicino in un Dondolo di Beckett memorabile per caparbietà e perché sono trascorsi 20 anni dalla morte dell’autore e da un’altra versione dell’odierno regista Andrea Adriatico. Presenta alterni picchi molto alti, il bel festival “Short Theatre” (…)

(Rodolfo Di Giammarco, “La Repubblica”, 21 settembre 2009)

(…) “Dondolo” scritto da Beckett nel 1980, presentato da Teatri di Vita, regista Andrea Adriatico, è uno spettacolo remix in quanto riproposto esattamente come fu allestito nel ’89; cambia solo l’interprete, che oggi è Angela Baraldi che, crediamo, ridefinisca egregiamente la messinscena dell’artefatto, con le sue oscillazioni fonetico/performative quale fluttuazione del tempo e degli eventi dell’esistenza. Drammaturgia bekettiana di un delirio i cui flussi recitativi ansiogeni alludono a segni premonitori. Quindi metafora di una esoterica messinscena dove il demone dell’ “analogia” rimanda all’eros che si intensifica in dramma, simile ad un flash back di nevrosi sullo sfondo del volgere quotidiano dell’attesa. La recitazione dell’attrice, piena di flussi biologici, tanto umbratile quanto misurata è satura di inquietanti “traslati”, e lascia intendere rimozioni profonde, elaborando il brivido dell’automatismo ripetitivo, sopratutto attraverso la parola “conv.pulsiva” caratterizzata dal turbamento psicologico, come fosse un’increspatura di vento alle tempie della follia.

La regia di Andrea Adriatico, ci propone in questo intrigante atto unico della durata di venti minuti, saturo di sfumature psicologiche, il “dondolo” del crogiolo umano, il segno della mitografia femminile colma di referenti onirici germinanti nella geografia ancestrale del diafano corpo nudo dell’attrice, simile alle increspature nell’acqua di uno stagno. (…)

(Vincenzo Sanfilippo, “Inscenaonline”, 21 settembre 2009)

Una radiosveglia accesa, sotto la sedia di una donna, la piccola luce rossa e l’orario ineluttabile che blocca il tempo, lo sospende nell’atto della percezione, ogni volta che si guarda l’orario in digitale – che si sposta per valori discreti è la definizione – gli occhi sono convinti di vedere l’ora esatta, ma ogni momento è diversa anche se il quadrante non lo segna: l’immutabile si prende il tempo che invece scorre, lo lascia così alla percezione, senza fare sconti, e noi restiamo appesi a quella piccola luce, come un oracolo, come un segreto. Questo sentimento accompagna l’intensa versione che Teatri di Vita, per la regia di Andrea Adriatico, fa di un bellissimo testo di Beckett, che si chiama Dondolo.

Dondola, dondola da ferma Angela Baraldi, dondola la sua voce, dondola quel che sta dicendo, le sue parole, il suo corpo pure statico fa muovere me, la sua nenia, litania dell’anima, mi dice che “alla fine viene il giorno”, ed io le credo, parola dopo parola, sono con lei in questo dondolare lieve, ma straziato, le vedo solo il profilo, qualcuno dall’altro lato la vede di fronte, ma credo il risultato sia lo stesso viso statuario, la stessa mimetica insolubilità emozionale, le stesse lacrime che le corrono sul viso. Adriatico la spoglia di tutto, abiti ed espressione, toni e colori della voce, le lascia ben poco, non più che quella poca luce e braccia e gambe immobili. “Tempo di smetterla”, mi dice chi dondola, ma poi non smette mai, ripete, di continuo, quel che la sua anima le suggerisce, e la ripetitività emerge, dietro la sua intimità.

Tema fondamentale è l’attesa, e di Beckett sarebbe un topos, ma non poi tanto qui: una finestra che si fa penetrare dal giorno alla notte, dalla notte al giorno, quieta, ha di fronte altre finestre, solitudini che si affacciano sulle altre, si guardano, si riconoscono nella loro fissità; ma una finestra è anche un accesso, questo sembra voler dire, un passaggio per le vite degli altri. Così accade qualcosa, uno scarto improvviso: il testo si sconvolge, entra in gioco un frammento di scheggia e la radiosveglia che aveva ripetuto la stessa immutabile presenza, lo stesso ripetuto succedersi dei secondi, di colpo salta, come dopo che va via la luce, a lasciare di sé soltanto un simbolico, bellissimo, lampeggiante silenzio che mi dice: 0:00.

In quel momento inizia ad avvicinarsi, dondola verso di me adesso, verso la platea, si muove alla liturgia del dondolo che è la misura di queste parole: nulla cambia, da lontano e da vicino, non colori, né altri suoni, solo uno di un’unica solitudine così cosciente, quieta, perché lo scarto non promuove, nel tempo che si muove, nell’anima di chi lo dice e si commuove, che una nuova, ineluttabile fissità.

(Simone Nebbia, “Teatroteatro.it”, 18 settembre 2009)

(…) Dondolo di Samuel Beckett, regia di Andrea Adriatico, sembrava una buona occasione, anche perché quando un bravo metteur en scène riallestisce un testo dopo vent’anni (l’aveva affrontato nell’89), offre volente o nolente l’occasione a se stesso e soprattutto allo spettatore d’una verifica. Protagonista del dramma è, come scrive Beckett nelle sue note, una donna “invecchiata prematuramente. Capelli grigi spettinati. Grandi occhi in faccia bianca senza espressione”. La sedia sulla quale siede deve essere “di legno chiaro lucidissimo, luccicante nell’oscillazione. Poggiapiedi. Schienale verticale”. E deve dondolare “leggera. Lenta. Controllata meccanicamente”. L’attrice nelle intenzioni dell’autore non parla quasi mai, salvo per dire ogni tanto “Ancora”, mentre il racconto della sua vita solitaria è affidato a una voce registrata. Beckett è talmente preciso nelle sue didascalie che esse non costituiscono semplicemente delle indicazioni di messa in scena ma rappresentano anch’esse vera e propria drammaturgia. Non rispettare un’indicazione come “Spot moderato sulla faccia, uguale dal principio alla fine, indipendente dalle successive diminuzioni di luce sulla sedia. Abbastanza ampio da includere di misura i limiti dell’oscillazione”, significa fare un altro testo, recitare La cena delle beffe sostenendo che si tratta del Romeo e Giulietta. Il testo viene stravolto al punto che l’attrice Angela Baraldi sta in scena nuda invece che in “abito da sera nero con merletti e collo alto, maniche lunghe, lustrini di giaietto luccicanti nell’oscillazione”. Non si assiste quindi a uno spettacolo di Adriatico che mette in scena Beckett ma che allestisce se stesso, la qual cosa appare oggettivamente meno interessante. Libertà d’artista è sacra ma altro titolo e altro autore s’avrebbe da stampare in cartellone: non Dondolo di Samuel Beckett ma Fronzolo di Andrea Adriatico. Perché alla fine anche questa appare operazione celebrativa: celebra il regista, autocrate novecentesco, quale demiurgo della scena. Non bisognerebbe mai tornare sui propri spettacoli passati, le commemorazioni nostalgiche lavorano al contrario della pietra filosofale e trasformano l’oro in piombo, il marmo in lapidi e l’acciaio in tegamini. Poi c’è il rischio che qualcuno se n’accorga.

(Marcantonio Lucidi, “Left”, 18 settembre 2009)

E’ un Beckett luminoso, quello di Andrea Adriatico. Con uno sprofondamento nel buio per Dondolo, rivisitazione del primo spettacolo del regista del 1989. Non io nei giorni felici unisce tre attrici per tre pièce dello scrittore irlandese, rivissute con fedeltà, ma anche con originalità di visione.

In Non io si dovrebbe percepire solo una Bocca che sputa frasi a velocità impressionate (l’autore fece stringere i tempi da 20 a 12 minuti nell’edizione inglese). E invece il regista chiude Francesca Mazza in una prigione trasparente, su un verde prato. All’inizio è intabarrata in una specie di burqa che lascia vedere unicamente i piedi e la bocca. Sarà liberata più avanti, ma non dal peso delle parole, che scorrono per 40 minuti, sottolineate e dilatate con lunghe pause, in una scansione quasi sofferta, immedesimata e distante, a rievocare anni di mutismo, di vita non vissuta o guardata dall’esterno e l’improvviso bagliore di una pentecoste della solitudine.

Giorni felici, invece, è asciugato a circa un’ora di spumeggiante dolore della ripetizione. Winnie è Eva Robin’s, sprofondata a seno nudo in una vasca piena di mele rosse; il marito (Gianluca Enria) si crogiola in costume adamitico, masturbandosi sotto un asciugamano rosso, in un paradiso terrestre dove il frutto del peccato originale è proliferato a ingabbiare verso una fine colorata e profumata. Tutto è incentrato sui rapporti distanti tra i due, con ironia e follia, con le mossette e le profondità di un’Eva Robin’s che porta Winnie nel “suo” personaggio, svagata e pungente, con qualche papera e mobili occhi prigionieri. Un Beckett ritrovato da Duchamp.

In Dondolo una voce avanza nella semioscurità in quattro sequenze interrotte dal buio completo e dal grido disperato della protagonista che chiede di continuare, fino alla fine. Terra sotto l’avanzare di un carrello che trasporta un essere favoloso, misterioso, vecchia, giovane, corpo nudo offerto, mostro, persona che ha pianto esplorando l’inutilità della vita. Splendido il lirismo trattenuto di Angela Baraldi, fragile guerriera. Adriatico crea tre forti metafore spaziali e fisiche, capaci di riscoprire con diretta inquieta semplicità lo spessore dei testi.

(Massimo Marino, “Corriere di Bologna”, 18 aprile 2009; “Hystrio”, luglio-settembre 2009)

Andrea Adriatico festeggia vent’anni di teatro e lo fa tornando al lavoro e all’autore da cui era partito, a quelle Ceneri di Beckett in cui già si percepiva un’eco pasoliniana al momento del debutto in un piccolo festival (si intitolava Rapporto confidenziale) presto suicidato da un sistema teatrale come altre volte intollerante di una intelligenza che lo metta in discussione. Come negare un sussulto di emozione, al rivedere nell’oscurità lontana il carrello su cui stava l’interprete di allora, l’attrice Iris Faigle, avanzare lentamente su uno strato di terra verso gli spettatori, elementare macchineria destinata a portare in primo piano il corpo immobilizzato in una posa innaturale, come un quadro di Bacon o il fotogramma di uno scivolamento o di una caduta che già storce il fragile appoggio delle gambe mentre ancora su di esse poggiano le mani.

La performance è stata ripresa dal regista con filologica fedeltà a quella prima versione, pur riacquistando il titolo originario voluto dall’autore irlandese, Dondolo, ma si innesta ora all’interno di una trilogia tutta coniugata al femminile, cui si è dato il titolo d’insieme di Non io nei giorni felici, con palese riferimento agli altri due tratti che la compongono (fino al 29 invade gli spazi dei Teatri di Vita e si può vedere anche a pezzi). E’ cambiata l’interprete (diversa e brava è Angela Baraldi che nella tensione immobile del corpo concentra una sorta di forza tragica), ma il senso del lavoro resta, legato a quel moto lineare di avvicinamento che si sostituisce al moto pendolare del testo. Cambiando non solo la prospettiva dello sguardo ma con la distanza anche la messa a fuoco di quell’immagine.

Beckett è un classico, si sa. VuoI dire che nella memoria ciascuno spettatore del suo teatro ha sedimentato una personale galleria di immagini, giacché sulla variazione si incardina la classicità. Per dire, volendo restare ai testi della serata, il lieve gesto in levare della mano di Piera Degli Esposti a ogni ripresa del flusso, verbale del suo Dondolo, emozionante per la quantità di vita che si concentrava in quella sola parola, “Ancóra”; o magari la Winnie di Marion D’Amburgo che chissà perché nella memoria si staglia più nitida della grande Natasha Parry.

Ma Beckett è soprattutto un grande creatore di situazioni, via via più estreme con l’avanzare della sua scrittura verso un beffardo svuotamento nel puro gesto dell’atto senza parole o della maschera di Buster Keaton o nel profluvio di parole disincarnate. Il corpo per metà interrato della protagonista di Giorni felici, la Bocca senza corpo di Non io. Una vera e propria sfida all’interprete, dibattuto fra gli estremi della mera adesione o della negazione creativa. E peggio ancora per i tanti ancora attardati sulla psicologia dei personaggi, sulla loro condizione esistenziale. Che lui se la ridesse di tanta seriosità, il grande burlador,l’abbiamo sempre sospettato.

Non a caso il tratto meno felice della serata è qui proprio Non io, che finisce per trasformare in personaggio quel che è solo un portaparola, una bocca appunto, che dovrebbe emergere dal nulla, nel buio, dialogante con un immobile Ascoltatore. Ecco invece una figura velata sotto una sorta di burka nero che si aggira, in piena luce, nel cerchio di un prato artificiale che fa da base a una sorta di voliera di tulle. E quando poi il velo le si sfila di dosso verso l’alto, come già aveva fatto la voliera, quel che appare è una figura femminile (Francesca Mazza) che dice un suo monologo drammatico, disseminando per la scena i petali di un mazzolino di fiori bianchi.

Non può deludere invece l’ilare agonia di Giorni felici. Qui poi l’impianto scenico sorprende e diverte. In luogo del convenzionale monticello c’è una vasca colma di odorose mele rosse (varietà Modì, al termine se ne possono anche mangiare), che a tratti cadono pure dall’alto. E lì dentro sta immersa la Winnie di Eva Robin’s, col corredo della grande borsa nera in cui caccia dentro la testa per tirare fuori le sue vecchie cose. Specchietto e rossetto e pistola. Gli occhiali e la lente con cui, facendo buffe smorfie, cerca di leggere la scritta apposta su uno spazzolino. L’ombrellino da sole incautamente di pizzo nero, che però non prenderà fuoco. La didascalia esplicativa di ogni suo gesto o pausa è ribadita dall’uomo che le sta dietro, sdraiato nudo al sole di quell’ultima spiaggia. Dove lei va sprofondando fino al collo senza perdere l’abituale ottimismo. Amarti ma a fatica, dice la sua canzone.

Metafora di una condizione esistenziale? Se così vi piace. Beckett non cessa di suggerire che quelli sono attori, che di teatro si tratta. Il teatro è una macchina di pensiero che funziona se è in grado di mettere in moto altre relazioni, se non si chiude in una interpretazione. Lo spettacolo ne è solo l’occasione.

(Gianni Manzella, “Il manifesto”, 19 aprile 2009)

A vent’ armi esatti dalla morte di Beckett, si direbbe che l’attenzione nei confronti delle sue opere non accenni a calare, ma stia anzi crescendo. E’ segno che questi testi, col tempo, non perdono suggestioni, ma svelano anzi non tanto dei nuovi significati, quanto dei nuovi punti di vista sull’autore. Va da sé che così aumenta anche la possibilità di darne delle interpretazioni sbagliate: ma il bello di Beckett è questo, che anche dalle interpretazioni sbagliate si possono trarre delle interessanti indicazioni.

Cosa c’è di sbagliato nel modo in cui Andrea Adriatico riunisce tre soliloqui femminili, Non io, Giorni felici e Dondolo? ll regista annunciava di volerli affrontare nell’insolita chiave di un sottile erotismo. Come si esprime, questo erotismo? Nel fatto che la bocca senza corpo al centro della prima pièce si liberi del burka nero che copre ogni altra sua parte anatomica, e si rotoli languidamente in un prato? Che la Winnie ermafrodita di Eva Robin’s sia immersa a seno scoperto in un mucchio di mele? O che l’anziana protagonista di Dondolo non sia affatto anziana ma si stagli, nuda e statuaria, su una sedia che scorre, nella penombra?

E’ ovvio, e proprio questo approccio lo conferma, che nei testi di Beckett non c’è, non ci può essere posto per l’erotismo: il suo teatro è tutto fatto di corpi atrofizzati, di parole raggelate, di pensieri ripetitivi. Se una dimensione sessuale eventualmente si manifesta nei suoi personaggi, essa tutt’al più appartiene al passato: e si sa che non esiste nulla di meno erotico del passato, che è memoria inappagata, o peggio ancora rimpianto.

Ma il problema, qui, non è ciò che manca, è ciò che si vede e si sente. Alla ricerca di un presunto abbandono sensuale, Adriatico punta su una recitazione sottotono, sussurrata, esageratamente introspettiva: trasformando dunque Non io in una discesa nella psiche e Giorni felici in un quadretto di infelicità coniugale, o interiorizzando la voce esterna, registrata di Dondolo, fa il contrario di quanto l’autore ha inteso scrivere, li riduce a storie personali, private, laddove le figure beckettiane si affannano in genere a parlare “in nome dell’umanità”.

Nell’insieme, dagli inutili su e giù del grande bozzolo di tela di Non io o dal tentativo di spostare il monologo di Winnie verso una sorta di dialogo col marito – cui è affidata la lettura delle didascalie – emerge un’idea un po’ vecchia della messinscena, dove i testi passano in secondo piano, e conta solo l’invenzione del regista: è una scelta che penalizza le attrici, Francesca Mazza, Angela Baraldi e la stessa Robin’s, frenate, ingabbiate in un percorso comune il cui fine, per quanto ci si pensi, non è chiaro.

(Renato Palazzi, “Il Sole 24 ore”, 19 aprile 2009)

Trittico beckettiano allestito da Andrea Adriatico ai Teatri di Vita, secondo la prassi ormai consolidata (e seguita pure dall’autore quando si mise a fare il regista di se stesso) di unire in una sera testi brevi, frammenti e dramaticules. Qui si apre con Non io e purtroppo già l’esordio è alquanto spiazzante: al posto della bocca che fluttua nel buio e vomita parole illuminata da un faretto, Francesca Mazza coperta di nero come una donna di Kabul sta al centro di una campana mobile in garza bianca, espande fiori sul prato di moquette. La regia diventa dunque esercizio di stile sovrapposto dannosamente all’oggettività assoluta del testo beckettiano, Bocca va verso il personaggio, verso la psicologia (quando Beckett la mise in scena disse invece: “Non so niente di lei, contano solo il testo e l’immagine scenica. Il resto è Ibsen”). Ora, la questione non è quella di attenersi più o meno fedelmente al rigido dettato dell’autore. Ma Beckett costruisce sempre la sua azione scenica appunto da un’immagine, non da una situazione come usualmente il teatro fa. Resta quindi da vedere quanto renda infilare la Winnie di Giorni felici in una valanga di mele anziché nel monticello di rena; e se sia costruttivo, anzi sanamente decostruttivo, abbinare alla sua agonia logorroica la presenza in scena costante del marito Willie, che recita le didascalie del testo. Ma, ortofrutta a parte, Winnie è forse la creatura beckettiana che tollera meglio una punta di naturalismo psicologico, e così Eva Robin’s non ne esce troppo male tenendola sospesa tra mondanità querula, gaia, e un cenno appena di dolore. Incolpevole anche Francesca Mazza come Bocca, che esegue con sommessa precisione. Quanto ad Angela Baraldi, protagonista del conclusivo Dondolo, la troviamo seminuda su una base mobile, fasciata da luci basse e trainata nel buio. Sorpresa: la sedia a dondolo non c’è. Ma per fare la vecchia che si dondola dentro il ricordo (il ricordo è vita, quando la sedia si ferma lei muore) l’attrice si immedesima fino alle lacrime. No, le lacrime in Beckett no. A meno che non sia, come stasera, un Beckett naturalizzato, rappresentato nei contenuti. Al posto del creatore di forme, di astratte strutture musicali che sanno trasformare il linguaggio in incantesimo e in ossessione.

(Sergio Colomba, “Il Resto del Carlino”, 19 aprile 2009)

Intelligente e stimolante il trittico beckettiano di Andrea Adriatico, intitolato Non io nei giorni felici, visto ieri sera a Teatri di vita.

Francesca Mazza è eccellente interprete di Non io, di cui il regista stravolge le indicazioni sceniche dell’autore, per ricreare e reinterpretare il testo, facendo emergere nuove suggestioni. L’attrice è prigioniera di una gabbia di tela bianca con pavimento di erba sintetica – che estrinseca uno dei momenti chiave dell’infelice vita della protagonista, per quanto si evince dal testo – e all’inizio indossa un burqa che lascia scoperta solo l’apertura della Bocca, la parte che prende il sopravvento sull’individuo; si vedono i piedi con le unghie smaltate di rosso, gli occhi sono chiusi/segnati da spille da balia, in mano reca margherite bianche che sfoglia mentre il monologo, molto pausato, procede. La gabbia poi si alza, l’attrice è spogliata dal burqa, si aggira (o, meglio, vagola) per il prato, dentro e fuori, riceve una pioggia di petali bianchi che rappresentano le sue lacrime (e ciò conferisce un significato straziante ai fiori che inizialmente teneva in mano). Poi la gabbia progressivamente ricade, imprigiona ancora, mentre le parole non cessano. Il generale rallentamento voluto dalla messa in scena impone un’introspezione maggiore ad un testo altrimenti vomitato fino quasi all’incomprensibilità: l’universale dramma della condizione umana rimane, ma è meglio veicolato dall’attenzione all’anonima protagonista femminile, che aggiunge alla voce una corporalità comunque negata, come sottolinea la scelta dell’abito e l’assenza di ogni forma di piacere (mai provato anche quando avrebbe dovuto). Da brividi alcuni gesti della Mazza, come il tentativo fallito di gridare e il quando, fuori dal prato, si volta di scatto additando l’altra (‘lei’) dentro, ma assente (non io, appunto). E ancora le ombre proiettate sulla prigione. Mi pento di non aver applaudito di più!

In Giorni felici il cumulo di terra è sostituito da una piscina di mele rosse (con ringraziamento all’insolito sponsor all’uscita), con alcune che cadono violentemente dal soffitto, quasi a scandire il tempo (un espediente simile – allora un tuono – era stato impiegato da Adriatico nella messa in scena di Orgia). Eva Robin’s è Winnie, immersa (nel primo atto a seno nudo) nelle mele; dietro di lei è sdraiato nudo Willie, interpretato da Gianluca Enria, che recita le didascalie del testo, “come a suggerire l’idea che conosca a memoria i vuoti gesti ripetitivi della moglie, descrivendo così la monotona ed eterna routine della coppia” (d’accordo con te in questo). Anche qui la tensione all’universale del testo è trasmessa per mezzo dell’abbassamento della vicenda ad una dimensione (quasi) quotidiana, nello squallore di una coppia, incapace persino di una sessualità condivisa (Willie si masturba sotto un asciugamano guardando video porno).

Angela Baraldi è l’inaspettatamente giovane interprete di Dondolo, puro testo “dodecafonico” (bellissima la tua definizione): seduta in lacrime su una sedia lentamente trasportata verso il pubblico dal fondo della ribalta coperta di macerie, offre una convincente prova attoriale.

Nel complesso, bravi gli attori e interessante la messa in scena, che dimostra che non esiste un’ortodossia beckettiana: come insegna la tradizione (pro captu lectoris habent sua fata libelli), i testi teatrali vivono anche e soprattutto di tradimenti e di messe in scena sempre nuove, che possono piacere, infastidire o annoiare. Questo trittico mi (ci) è piaciuto!

(“Eratostene presenta…” (blog), 20 aprile 2009)

Tre “buchi” diversi, per dirla con Samuel Beckett, ospitano tre creature femminili partorite dalla mente del suddetto scrittore/regista irlandese. Partiamo da quello più colorito nella realizzazione del regista Andrea Adriatico: una vasca di forma quadrata riempita completamente di rosse mele, quasi ad evocare la cagion biblica primigenia della rottura dell’armonia fra l’uomo e la donna, è diventata l’habitat di Winnie e del suo vecchio amore, “per dirla nel vecchio stile”, Willie. Winnie è sommersa dalle mele fin sopra alla vita, Willie giace disteso dietro di lei. Entrambi sono nudi. Variazioni di Adriatico che ha amplificato l’aspetto sessuale dell’opera, insito ma certamente più velato. Non più una donna borghese a far da protagonista, addobbata col classico giro di perle, parasole e cappellino, ma una irriverente Eva Robin’s (sarà un caso che l’attrice prescelta per il ruolo di Winnie porti questo nome?). Dalla sua grossa sporta nera fuoriescono bizzarri oggetti che aiutano à tirer la journée di Eva: uno specchio con cristogramma sul retro e manico a forma di cornetto per allontanare il malocchio, un cappellino da motociclista, rigorosamente rosso, custodia per occhiali piumata… è chiaro il messaggio che Adriatico ha voluto evidenziare: il dramma di Winnie è lo stesso di “Eva”, nonostante la differente estrazione sociale a cui appartengono e nonostante la Winnie del regista bolognese d’adozione viva in un’epoca a noi contemporanea. Come ulteriore conferma dell’attualizzazione dell’ambientazione che ci propone Adriatico, notiamo che l’originaria cartolina tenuta in mano da Willie, è stata sostituita con un i-Pod attraverso il quale Willie (Gianluca Enria), durante la maggior parte della durata dello spettacolo, guarda con una certa indifferenza un film porno. L’attenzione è tutta concentrata sul rapporto di coppia che appare scolorito dal tempo, divenuto unicamente un pretesto per rievocare un passato dove il desiderio era ancora vivo, dove il dialogo tra i due non era ancora stato sostituito dalla sovrabbondanza di parole di Winnie, preziosa risorsa che le permette di riempire, insieme agli oggetti, la sua giornata; e dalla muta risposta di Willie. Tuttavia la Winnie di Adriatico, così come quella di Beckett, è una donna forte, che ama, nonostante tutto, la vita. Intenerisce l’animo dello spettatore con le sue vane speranze, con il suo ottimismo, dietro al quale si cela la paura di rimaner sola, senza più niente da dire, niente da fare e… tutta la giornata davanti.

Catapultiamoci ora in un’altra ambientazione: al centro di un’altra stanza una grande struttura cilindrica, dalle pareti rivestite di un tessuto bianco semitrasparente ed elasticizzato ospita al suo interno Bocca (Francesca Mazza) e il suo effluvio di parole bisbigliate, pacatamente pronunciate. La protagonista è inizialmente coperta da una tunica nera che le lascia scoperta unicamente la bocca. Solo in seguito la tunica, attaccata sulla parte superiore corrispondente al cranio ad un filo, verrà tirata su. La componente del “sentirsi tirar su” tipica dei personaggi beckettiani, costretti invece nel loro “buco sotterraneo”, viene qui, a buon ragione, evidenziata. Delicata la recitazione di Francesca Mazza: mostra una donna spaurita ma che nello stesso tempo non riesce più a controllare una parte del suo corpo che reclama di poter gridare…

Diametralmente opposta la donna di Dondolo: la freddezza e la potenza della voce di Angela Baraldi, interprete di “D” rompe il silenzio ed il buio nel quale s’immerge lo spettatore ancor prima che la messa in scena inizi. Dapprima il buio più totale, interrotto unicamente dalla luce rossa lampeggiante della radiosveglia che segnala l’ora. Poi lo spot inizia ad illuminare l’immagine di “D” che avanza lentamente, poggiata immobile ad una sedia in una posizione di tensione muscolare, trasportata da un carrellino tirato da “una mano invisibile”. Man mano che la nuda figura avanza il fascio di luce dello spot rileva resti di rose rosse disseminate sul pavimento.

Tre donne intrappolate nei loro resti. Tre tentativi immobili di una redenzione che non ci sarà mai.

(Fausta Scarangella, “L’Arengo del Viaggiatore”, maggio 2009)

Come tutte le feste di compleanno, abbassate le luci, spente le candeline, scartati i regali, salutati gli amici, la festa a un certo punto è finita. Ma non ai Teatri di Vita, dove Non io nei giorni felici (Samuel Beckett visto da Andrea Adriatico), al debutto nei giorni scorsi, ha incantato tutti guadagnandosi sul campo autentiche ovazioni. Accostando, non senza una punta di superbia, i suoi vent’anni di carriera artistica al ventennale della morte di Samuel Beckett, il regista Andrea Adriatico ha scelto di confrontarsi con l’universo femminile del drammaturgo irlandese in tre diversi spettacoli. Due monologhi: Non io, con Francesca Mazza e Dondolo, con Angela Baraldi e il comico duetto Giorni felici, con Eva Robin’s e Gianluca Enria.

L’idea di Non io, composto nel 1972, vera e propria sfida per le attrici che lo hanno impersonato, a partire da Jessica Tandy (prima assoluta al Beckett Festival di New York nel 1973), nasce da un viaggio di Beckett nel sud dell’Irlanda e dal casuale incontro con una vecchia homeless. Adriatico riscrive il personaggio, mette in scena la storia di una donna che vive ai margini della società, interpretata abilmente da Francesca Mazza vestita con una djellaba, tunica tipica di molte tribù del deserto africano. La costrizione di quell’abito scuro, cucito persino nelle fessure degli occhi, non lascia scampo, se non all’unica vera protagonista di questa pièce, una bocca che parla di se stessa e compiange il fallimento della sua infelice esistenza. Persiste il ricordo di un pomeriggio di aprile, “Cosa? Chi? No! Lei!”, sulla scena scandita da un sospeso silenzio, dove assenza e presenza si fondono e si confondono allo stesso tempo. Al centro dello spazio scenico, ampiamente illuminato, un’elegante voliera avvolge il ricordo, soffoca le voci, dilata le attese. Intorno al pulpito il tempo è sospeso, mette in guardia il pubblico attento, che deve farsi tenace uditore e supera un breve blocco emotivo o prima di esprimere il suo pieno apprezzamento.

Non c’è perdita di contatto tra una messa in scena e l’altra e se la scelta di assaggiarle tutte nella stessa sera o vederle in serate diverse tocca allo spettatore, la circostanza è favorevole per immergersi in successive seducenti atmosfere.

Dondolo, più breve e scritto in un atto unico nel 1980, mette in scena la straordinaria Angela Baraldi imprigionata nella sensualità di una scomoda, prolungata inazione. Il tocco di Adriatico pone l’accento su una morbida pornografia della materia. La carne e i sensi si fondono in un continuo ripetersi di frasi che sottolineano l’incessante fluire del tempo e delle cose in un ambiente non ben definito. Il movimento meccanico di una sedia che avanza verso il pubblico, sino a dematerializzarsi alle sue spalle, accentua lo straniamento, amplificato dal perpetuo ripetersi della parola “Ancora” e poi scompare.

Affermare la propria esistenza, seppur reputata come la peggiore possibile, è il compito di Eva Robin’s, inguaribile esibizionista della parola in Giorni felici. Winnie, impersonata dalla femme fatale, in fondo è felice, le sue parole lo sono sicuramente sia nei confronti del marito, sia rispetto alla sua stessa condizione. Così ogni giorno è “un altro giorno divino”. Interrata in una vasca piena di mele, la donna, seppure immobile, strapazza con le sue parole il pubblico seduto a bordo piscina e tira fuori da una borsa svariati oggetti che animano la scena. Un pettine, uno spazzolino da denti, un dentifricio, un rossetto, una lima per unghie, uno specchio, un organetto che suona seduttore nel racconto. Saltano fuori perfino un parasole ed una rivoltella, adorabile feticcio da accarezzare. Nell’assurdità e nell’inazione del contesto, striscia nudo come un verme l’inaspettato marito Willie, qui interpretato da Gianluca Enria. Il dialogo tra i due sfiora ironicamente l’esasperazione, tra i monosillabi di lui e lo straparlare di lei che continua ad affermare, senza ombra di dubbio, che la giornata sarà sicuramente un altro giorno felice. Il pubblico lo riconosce, galeotto fu il frutto e chi lo mangiò.

(Viviana Dasara, “Lo Spettatore”, 5 maggio 2009)

Per celebrare il ventennale della morte di Samuel Beckett, Andrea Adriatico, regista e fondatore di Teatri di Vita a Bologna, propone un personale trittico ispirato a tre dei più noti testi del drammaturgo irlandese, Non io, Giorni felici e Dondolo. E’ affiancato da tre protagoniste d’eccezione: il premio Ubu Francesca Mazza, la nota transessuale Eva Robin’s e Angela Baraldi, nota ai più come protagonista del film di Salvatores Quo Vadis, Baby?. Il confronto con Beckett, caro ad Adriatico dai lontani esordi di Ceneri di Beckett (1989), si conferma ancora oggi operazione rischiosa o quantomeno complessa per ogni regia, se è vero che, in Beckett, la definizione è per sua natura impossibile così come il punto a capo.

Non io nei giorni felici tenta ora della tragedia dell’assurdo una lettura fortemente emotiva, a tratti ironica, che di Beckett tuttavia trafuga più l’idea che il sussulto. A cominciare lo straniante viaggio nell’universo del non-sense è, a luci rigorosamente accese, Non io, dove una figura femminile (la brava Francesca Mazza), coperta da un ingombrante e anomalo chador, lascia spazio solo al paro libero della bocca. E’ con lei, la Bocca, che nell’universo sospeso si nasce, si vive e ci si distende nella circolarità di un cerchio senza uscita, in cui si cammina, placidamente spaesati, come sull’erba di un prato. Una Winnie immersa in una piscina piena di mele rosse fa invece la sua comparsa in Giorni felici, dove la Robin’s dona alla protagonista angolature comico-grottesche, perennemente anelante le attenzioni di Gianluca Enria, un Willie trasformato in vero e proprio bellimbusto da spiaggia, che tuttavia finisce per ridurre a “romantico” botta e risposta l’inesorabile consistenza piatta della sua personale confusione. Piuttosto retoriche anche le mele, trovata dal forte impatto visivo, che però scade nel supposto rimando all’origine. A completare il quadro è infine la volta di Dondolo, il migliore, a nostro parere, dei tre exempla. Qui il dondolo non dondola, avanza, lentamente, mentre una figura ieratica, quasi mitica nella sua semplicità sofferente, nuda nella sua impotenza costretta, condivide con il pubblico il fluire incessante del tempo. Nessun lamento, nessuna cantilena, solo un po’ di disprezzo, soffocato e austero, che Angela Baraldi impersona con commozione e precisione.

Più interessante della prova registica e attorica, in Non io nei giorni felici è forse, in senso stretto, il punto di vista. A intrecciarsi con la parola inconcludente sono infatti anche le prospettive della visione: uno sguardo drammatico e conforme alla parola, sospeso tra i confini del cerchio, capace di fare lo spettatore partecipe, di volta in volta, di rinnovati “additamenti”, ora verso l’alto ora verso il basso e, ancora, di sbieco. Un lungo pellegrinaggio nel dubbio beckettiano è quello di Andrea Adiratico, che sceglie di completarsi in ultimo, con il sapore della quotidianità, con la mela di Modì della nostra Eva-Winnie, che al primo intervallo e all’uscita ci viene gentilmente offerta dal teatro. Ecco allora il foyer popolarsi ben presto di simpatiche lanterne rosse, che passano di qui e di là per le nostre mani… agricoltura biologica, dicono, ma non ci crediamo. La sensazione che permane è infatti la stessa dell’intera operazione: si lascia mordere ma non sazia.

(Lucia Cominoli, “Krapp’s Last Post”, 6 maggio 2009)