Settantasette. Senza nostalgia, con un forte senso di sconfitta

Il mio 1977 parte da un altro anno a doppia cifra di quel lontano e oscuro ‘900: il 1966. Che è l’anno in cui sono nato. Giusto per dire all’epoca dei fatti qual era il mio mestiere: un bambino, o poco più. Di quel ‘77 la memoria che porto è l’infernale solitudine che seppe procurarmi, e quel primo assaggio di dolore potente, violento, incontenibile.

Il dolore che si scrisse un mattino quando a svegliarmi non fu gioia ma una macchina color cognac, con un tetto panoramico apribile al vento, enorme segno di un benessere familiare dell’italietta che cresceva intorno alla capitale, guidata da un autista poco propenso a farmi accompagnare nel viaggio da un cucciolo di cane di poche settimane.

Dovevo essere a scuola, fui portato altrove.

In quel viaggio breve, verso una villa di prima periferia, ora finita per uno scherzo del destino tra le mie cose che non so vendere né abitare, si spense per sempre la speranza di un’infanzia di spensieratezza, trascorsa a sbirciare con curiosità nelle camere sempre troppo affollate, tra militari di alte carriere e democristiani pronti a raccontare e smontare un governo.

Si spense col memoriale dell’Osservatore Romano, la rivista che più di una volta aveva suggellato la celebrità familiare, letto in quella villa che sapeva di feste allegre, di mangiate colossali, di travestimenti, di ironia e sensualità che non ho mai saputo imitare davvero.

Il mio 1977 comincia lì, con questi pensieri e il latrato di quel cucciolo di cane poi costretto alla catena: si mangia ancora, ma stavolta accade perché è finita la vita, all’improvviso, di colpo, senza un apparente perché.

E mentre tutto cambia, mentre il via vai umano si mescola al latrato straziante del cucciolo senza più attenzioni, il mio silenzio interiore diventa inarrivabile: sbircio umani che siedono accanto a un letto funebre, intenti a osservare un cadavere troppo giovane che lentamente si decompone e lascia scorrere un rivolo di crema amara dalle labbra. Su quel letto avrei dormito poi molte notti a seguire, cercando di non stare nel solco di quell’uomo in procinto di sciogliersi che avrebbe turbato per sempre le mie oscurità.

Delle sconvenienze di quel 1977 mi parlavano le amiche più grandi, che sbirciavo provare minigonne in un negozio molto in voga che chiamavano con una certa ironia “la parigina”, ricco di semi della provocatoria libertà di un tempo che ricordo gaudente in quel mio primo violento dolore.

E ricordo bene la tv di quei giorni, c’era una città assediata, Bologna, che suonava lontana.

Non era lontano invece Luciano Lama, da sempre e per sempre sindaco di quella periferia romana che porta le mie origini e da sempre presente nelle stanze della memoria abitate dalla mia curiosità.

Il comunista benvoluto.

Che fu molto fischiato. Ricordo le risa, a tavola, per quell’oscena fuga dalla Sapienza, quando gli studenti non lo lasciarono parlare. Lui che, onestamente, parlava davvero assai e mi incantava.

Forse per questo ho mantenuto la passione per questa commistione dell’umana pietas dentro storie sociali in quasi tutto il mio lavoro creativo. Pubblico e privato si fondono nella mia memoria. E resto lì, provato da questa fusione.

Quello stesso giovane autista che in quella mattina del 1977 mi accompagnò sull’ammiraglia di famiglia verso un violento dolore, fu presente a lungo nella mia vita di quel tempo. Era bellissimo, come lo ricordo io. E si portava dentro tutti i suoi vent’anni. Mi parlò dei carri armati che invasero una città contro gli studenti, e di Francesco Lorusso, uno che era del clan militare, ucciso con un colpo alla schiena perché viveva di passioni.

E le passioni del bellissimo autista le incrociai una notte, quando lo vidi all’opera dietro la parete di una casa al mare, nell’oscurità, consumare l’amore dei suoi anni con sesso forte e acceso. Era dall’altra parte di Lorusso, quella che amava l’ordine costituito e il servizio cieco al potere. Lo si percepiva anche dal sesso che faceva, da come usava le mani. Non che avessi grande esperienza di interprete allora, ma si fissò così quel momento di voyeurismo adolescenziale.

Sembra una favola amara questo galleggiare nella memoria, e forse un po’ senza senso, ma in realtà descrive a mio modo esattamente la sensazione che ancora oggi mi porto dentro: i miei genitori, i loro amici, si sono divertiti un mondo mentre sentivano che era l’ora di fare l’Italia.

Ricordo le risate fantastiche della signora Onorina, e quelle sue feste che sembravano un carnevale infinito. E ricordo che la solitudine che sentivo mi isolava perché la consideravo esclusiva, come fosse solo cosa mia, appartenenza diretta, che gli altri non potevano in alcun modo comprendere.

Oggi rileggo una frase che promuoveva Radio Alice, la radio che ha fatto la storia del 1977: un antidoto alla solitudine.

Così, pur undicenne, imberbe e senza una vera idea della vita, con un dolore atroce, il mio ‘77 ha presentato subito il conto del futuro: di quegli slogan “lavorare con lentezza”, “stato di felicità permanente”, “antidoto alla solitudine”, ho sempre saputo che avrei per destino avuto la predisposizione opposta.

Quella che sembra l’armatura del mio presente, con la quale leggo la storia del mio essere ormai cinquantenne chiamato a riflettere.

Ma a riflettere su cosa? Sull’omicidio Lorusso? Su uno stato che assale coi carri armati le sue speranze migliori, gli studenti dell’Università? Solo la rivolta di piazza Tien An Man, a Pechino, poté imitare il ‘77 di piazza Verdi a Bologna, nel regime cinese che più regime non potrebbe essere.

Oggi si aggredisce con più maestria. Il litio nell’aria e gli insegnamenti truccati. Siamo ormai esperti di inganni meno appariscenti.

In fondo anche l’Italia di quegli anni era proprio tanto amara, quelle risate condite di arrosti e lasagne che vedevo scorrere nelle stanze accanto alla mia, dove piduisti e cardinali consumavano i medesimi scranni mentre mia madre allestiva servitù con fermezza andarono a sbattere contro quel dolente 78, quando il rapimento Moro mi segnò in via definitiva.

C’era la rivoltella, c’era la paura. Le città assediate di polizia, il rapimento come necessità politica per essere presi sul serio. Non si rideva più. E non ho più visto ridere come prima. Non ho più visto “degli zingari felici”, anzi.

E se oggi uso in prestito umile uno slogan di Roberto Roversi e mi “chiedo chi era Francesco” non lo faccio perché sento nostalgie del mio terribile ‘77, ma perché provo un forte sentimento di sconfitta a sapere che da quel proiettile si è generato il mio destino di uomo accorto, che lavora con furia e senza sosta, che non ha ancora ben capito cosa sia la felicità permanente e che è provato dalla solitudine confortata da un uomo che mi russa accanto mentre scrivo.

Così se da un lato sento la speranza di chi vorrebbe che col mio lavoro gli facessi rivivere anche solo per mezz’ora l’incanto di quel momento, di quegli indiani coloratissimi, di quei sassofonisti pieni di emozione, di quelle piazze ingorde come non mai di parole e confronti, io so che li deluderò con la mia solitudine perché, per dirla con l’urlo del ventenne Izi, so solo “sparire, tornare, fuggire, morire, per vivere meglio, per vivere il tempo, per viverne il tempo, per viverne il tempo sul serio”.

clicca qui per leggere l’articolo su Doppiozero, 12 aprile 2017