Settantasette. Senza nostalgia, con un forte senso di sconfitta

Il mio 1977 parte da un altro anno a doppia cifra di quel lontano e oscuro ‘900: il 1966. Che è l’anno in cui sono nato. Giusto per dire all’epoca dei fatti qual era il mio mestiere: un bambino, o poco più. Di quel ‘77 la memoria che porto è l’infernale solitudine che seppe procurarmi, e quel primo assaggio di dolore potente, violento, incontenibile.

Il dolore che si scrisse un mattino quando a svegliarmi non fu gioia ma una macchina color cognac, con un tetto panoramico apribile al vento, enorme segno di un benessere familiare dell’italietta che cresceva intorno alla capitale, guidata da un autista poco propenso a farmi accompagnare nel viaggio da un cucciolo di cane di poche settimane.

Dovevo essere a scuola, fui portato altrove.

In quel viaggio breve, verso una villa di prima periferia, ora finita per uno scherzo del destino tra le mie cose che non so vendere né abitare, si spense per sempre la speranza di un’infanzia di spensieratezza, trascorsa a sbirciare con curiosità nelle camere sempre troppo affollate, tra militari di alte carriere e democristiani pronti a raccontare e smontare un governo.

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