Teatro politico

 

Teatro politico

Un giorno, dei tanti, passati in qualche anticamera, si spalanca la porta di un ufficio di uno squallore indicibile, nella grande città caput mundi.
In quell’ufficio c’è un omino, corpulento, giovane, sudato, con in mano un telecomando per controllare l’aria condizionata e il fare di chi sa che ha in mano i destini di molti.
Sa e dice. Senza scrupoli. Declama sprezzante il suo potere. Senza pudore. Sentenzia: “Qui comando io!”. E lo fa in maniera arrogante, cialtrona, sciatta. Ma efficace. È saltato su ogni cavallo disponibile, in barba a qualsivoglia idea di rigore e istituzionalità. E manipolando quel telecomando per l’aria condi- zionata, commentando le grazie di qualche attrice, esaltando i suoi mezzi per fregare il prossimo è arrivato a disporre dell’uso pieno della sua poltrona. La abita bene. Suda, ma la sua sola fatica è quella di premere bottoni e inchinarsi a poteri ancora più importanti.
Non è il solo. Di omini sudati, arroganti e sprezzanti, pronti a sentenziare: “Qui comando io!” è pieno il mondo.
Il teatro è il luogo dove tutto ciò entra in maniera prepotente. Sembra che gli artisti, nei secoli, non siano serviti ad altro che a questo: a generare nel potente di turno il piacere di avere un suddito con cui giocare al gatto col topo. Come posso credere al teatro se so tutto questo?
Se so cosa costa un contributo, una recensione, un premio in questo paese? Il teatro in Italia è stato più d’ogni altro il terreno di scorribande personali, di uomini forti che con la loro personalità hanno fatto il bene e il male, hanno determinato il giusto e l’ingiusto, il bravo e il non bravo a seconda del numero di inchini. Personalmente ho avuto qualche fortuna, ma in questo quadro il mio senso civile non mi permette gioia. Perché so di non essere un uomo del tutto libero. Non sono libero quando vedo le file delle intelligenze del nostro paese, umiliate e costrette a recriminare una sopravvivenza, un ascolto. Non sono libero quando capisco che l’economia che fa girare la cultura è fatta di telecomandi che regolano l’aria condizionata marcia e putrida. Allora come posso credere al fatto politico di un teatro che è politico molto prima di essere rappresentato e nel senso peggiore e più deleterio del termine? Che se in scena rappresenta valori e ideali, in cuor suo professa e pratica linguaggi di stigma, di prepotenza, di frustrazione?
La maggior parte di questo teatro è in fin di vita. Vive asfittico, piegato sulle proprie incrollabili miserie. E con lui, inevitabilmente, il senso di essere artisti, attori, registi in questo tempo.
Quando mi chiedono quale sia il mio mestiere, non so ancora rispondere. Potrò rispondere quando quelli del mio mestiere sapranno cosa vuol dire sciopero. Cosa vuol dire tutela. Cosa vuol dire categoria. Per ora provo disa- gio, quasi come se la scelta fatta mi ponesse ai margini della mia identità. Provo disagio quando vedo gli artisti francesi reagire ai tagli riempiendo le strade di Parigi. Provo disagio quando ascolto i nostri politici nei convegni, e non sento fischi. Credo di essere sempre pronto a definire e a ridefinirmi ma faccio fatica a trovare il senso a volte. Sono stato determinato da una passione indicibile. Ho combattuto e creduto che fare teatro fosse una sorta di mis- sione funzionale alla storia umana e a quella strettamente personale. Come scrivere, dipingere, fare film. E man mano che la passione trovava conforto nella riconoscibilità e visibilità, cominciavo a star sempre peggio. E mi son passati davanti attori che si spogliano ai provini pronti a tutto, critici in grado di scrivere esaltanti prosopopee al solo prezzo di poter essere degni di una scrittura complice, compagnie che potrebbero dirti che sei biondo e hai gli occhi azzurri per recitare nel teatro che dirigi.
Miserie umane, comuni, ben note, ma che nessuno chiama. Mentre tutti chia- mano l’artisticità, e sono pronti a declamare il bello del proprio valore, la pro- fondità dei propri sentimenti, il proprio sentimento di fierezza politica. Sono documenti falsi, ora lo so. Perché nessuna di queste menti eccellenti, piena di energia furente e con mille brillanti negli occhi, è capace di accendersi davvero per un’ingiustizia. Perché nessuno rinuncia ad un pezzetto della propria storia quando si scontra con la miseria di un potere che umilia e divide. Perché nes- suno sa dire un NO, NON IN MIO NOME.
No alle spartizioni, no alle anticamere. No. No alle caste, no a chi prova a zittirti perché scomodo, no al razzismo teatrale. No.
Possiamo cambiare le parole di questo discorso, rimovere la parola TEATRO, sostituirla con la parola UNIVERSITÀ, RICERCA, CINEMA, e molto altro.
Il paradigma e le verità restano le stesse. In questo senso, il teatro, è POLI- TICO.
Occorre una guerra, santa.

 

Pubblicato in Passione e ideologia. Il teatro (è) politico, a cura di Stefano Casi e Elena Di Gioia, 2012: versione e-book: Teatri di Vita, Bologna; versione cartacea: Editoria & Spettacolo, Roma.