Addio Leo, risorsa perduta e mai colmata di questa città

La morte del regista e attore Leo De Beradinis, che per decenni ha legato e intrecciato la sua vita e la sua arte ai destini teatrali di Bologna, ha suscitato grande emozione nel mondo della cultura cittadina. Ospitiamo un ricordo del regista Andrea Adriatico. “Perché le persone solo morendo diventano così belle, così rispettabili”~ E’ una battuta del Ritorno al deserto di Bernard-Marie Koltès, che come sempre è una fotografia raggelante della nostra umanità. E’ morto Leo De Berardinis. O per meglio dire, il corpo di Leo De Berardinis. Perché il resto era già morto da tempo, da quel maledetto giorno in cui qualcuno sbagliò qualcosa in una clinica bolognese e la mente di uno dei più seguiti e straordinari artisti del nostro tempo si perse nel viaggio segreto dell’ esistenza. Fu un uomo di teatro di grandissima levatura, che emozionò platee intere con i suoi spettacoli. Non nascondo che provo un certo imbarazzo nel tentare di ricordarlo qui, in queste pagine e in questa giornata in una Roma bellissima che ne accoglie le spoglie, bagnata da un sole di settembre, come sempre senza tempo. Basterebbe forse qualche nota di Charlie Parker, cui dedicò un film magnifico, e un lungo silenzio per ricordarlo davvero. Ma proverò a fare del mio meglio. Proprio io che Leo forse non l’ ho mai capito. Io che l’ ho sempre rispettato guardandolo da lontano, sottolineando in ogni occasione pubblica e privata quanto fossi distante dal suo intendere il teatro come elemento totalizzante.

Io che ho sempre guardato con sospetto quel porsi di Leo De Berardinis come santone guida, come testimone e vate di un classicismo rimodernato che abbracciava da Shakespeare a Totò col suo napoletan-foggiano a pervadere ogni cosa. Mi ricordo anche il fastidio provato per la corte che inevitabilmente si creava intorno a Leo, quel tipo di corte che tipicamente accompagna le persone di successo nascondendone le insicurezze. E ricordo la sua vena polemica, il suo a volte difficile rapporto con i teatri che lo hanno accolto e prodotto, certe sofferenze per la presunta irriconoscenza che un artista certamente è condannato a provare nella sua vita. Gli anni Novanta, vivendo artisticamente nella stessa città, sono stati anni d’ intreccio tra noi, inevitabilmente. Leo avanti, ovviamente, nell’ età e nell’ esperienza, io dietro, giovane in crescita. Sono stati gli anni in cui lo preferirono come direttore di Santarcangelo, il festival che mi ha visto nascere e in cui mai più sono tornato. Proprio quell’ anno mi chiamò al telefono, e mi chiese di partecipare al suo primo grande evento, il raduno dei “cento attori”. Apprezzai, ma gli dissi di no. Non sono un attore, e il mio imbarazzo, il mio scarso desiderio di espormi non mi permisero di accettare. Fu generosamente insistente, cercò di convincermi, mi disse che potevo essere il suo Tiresia. Non andai. Fu doloroso rifiutare, come sarebbe stato doloroso farne parte. Ma quei cento attori riuniti, devo ammettere, suonarono come una chiamata forte alla coesione che nessun altro in Italia riuscì più a concepire in un mondo frammentato dalla miseria umana come quello del teatro. Poi venne il tempo del Teatro San Leonardo, e sarebbe strano che io oggi non ricordassi quante e quante cose hanno segnalato la nostra distanza intellettuale. Ma il rispetto non è mai mancato. Perché un artista come Leo fu una risorsa perduta e mai colmata in questa città. Non fosse altro per la grande scuola di attori che fu capace di mettere insieme, una grande compagnia di nomi d’ eccellenza a cui ho attinto negli anni a piene mani e che la prima morte di Leo, quella dell’ artista, in quella triste giornata d’ ospedale bolognese, lasciò orfani. Ho attinto a piene mani da quel gruppo, e lavorando con loro, con Francesca Mazza, con Gino Paccagnella, con Angela Malfitano, con Olga Durano e tanti altri ho capito il segreto di un artista segnato anche da un destino di disgrazia e solitudine. Leo è tutto questo nella mia memoria: l’ artista che ferma gli spettacoli per dire la sua sul mondo, che infila nella scena il suo sermone come fosse verità da scandire, che vive umoralmente il bene e il male, ma anche l’ artista che dalla scintilla di un sorriso, come l’ ho visto fare sotto i miei occhi, crea un teatro che non dimentichi. Applausi Leo, chissà che lassù non torni a parlare.

L’articolo è uscito su «la Repubblica» (Bologna), 19 settembre 2008