Il coraggio di La Polla e il declino del Dams

Come si può non soffrire nel leggere l’ intervista a Franco La Polla? Un altro pezzo di storia del Dams, il glorioso Dams di Bologna, mostra il suo disagio. La Polla archivia la sua esperienza da direttore, con il suo straordinario sapere, le sue incredibili visioni d’ apertura sul cinema nordamericano, e quel rigore critico che è stato la fortuna di molti studenti illustri. E con le sue dimissioni urlate sfodera un coraggio da leoni, in un territorio, l’ università italiana, che da sempre annega i suoi traffici in baronati silenziosi e oscuri. Il professore ha ben chiarito con il suo gesto la questione in ballo: non si può insegnare nulla senza qualcuno che, per l’ appunto, insegni. La regola è semplice, banale, scontata. Eppure perché la si comprenda davvero bisogna fare un passo indietro. Senza andare neanche tanto lontano. Bisogna tornare alla famigerata riforma universitaria che istituì la laurea breve (quella triennale per intenderci) accanto a quella specialistica. Una riforma eccellente, se solo non si fosse in Italia, il paese dove la regola più amata è «fatta la legge, trovato l’ inganno». Inganno c’ è stato e c’ è e gli studenti ne pagano il prezzo più salato. Al grido «più materie» non ha corrisposto l’ ovvio «più professori che le insegnino». Perciò, chi ha fatto un tale esame nel triennio, in più di un’ occasione si vede riproporre lo stesso esame nel biennio specialistico cambiato nel nome (spesso incomprensibilmente altisonante) ma non nel programma di studio. E la colpa non è dei professori, a cui non si può certo chiedere di fare corsi su corsi, esami su esami, ma delle università e di chi le dirige oltre che di chi legifera. Di chi ha preteso di trasformare le università in aziende, spesso in concorrenza tra loro a colpi di pubblicità e «facili» promozioni. Quanto sarà scadente la formazione di uno studente così costruita? Quanto sarà valido un insegnamento in serie, spesso impartito da docenti a contratto che quando guadagnano 2000 euro all’ anno (e non è un refuso, proprio così, all’ anno) possono dirsi soddisfatti? Torniamo a La Polla. Finalmente un gesto che scoperchia la pentola. Il Dams, quel Dams dove ormai troppi anni fa mi sono laureato con lode era il tempio degli Eco, degli Squarzina, dei Meldolesi, dei Celati. Si veniva a Bologna per quel Dams, pronti ai sacrifici di una città carissima e poco accogliente. Oggi i Dams sono dappertutto, e in quello di Bologna gli studenti sono ormai solo numeri. Esistono professori bravissimi, in tutte le discipline che in realtà «professori» non possono chiamarsi: sono spesso ricercatori che da vent’ anni aspettano il riconoscimento del loro status, o dottorandi, o assegnisti di infinite ricerche che altro non sono se non l’ ennesima truffa per permettere a quelli della mia generazione, i quarantenni, di guadagnare i soldi delle bollette. Ma professori di fatto sono: fanno esami, discutono tesi, ricevono studenti confusi. Sarebbe utile capire quale proporzione di crescita ci sia stata negli anni tra insegnamenti e professori «titolati». E questa è la nostra università pluricentenaria? Un’ università in mano al volontariato? Ma se tutto questo è una piaga nazionale, è pur vero che il male del Dams è invece direttamente e strettamente legato ad una Bologna che impoverisce ogni giorno. Se proprio quella facoltà fu negli anni andati la testimonianza più viva di un laboratorio aperto e in corsa verso il nuovo, vedere oggi che una delle sue menti più illustri e costretta a battersi perché ci sia ancora «qualcuno che insegni» è una autentica vergogna che Bologna non merita. E se l’ università continuerà a perdere colpi, a non valorizzare le sue risorse, se non riprenderà davvero ad insegnare il nuovo, la voragine amministrativa si farà sempre più insostenibile perché, senza eccellenze, a studiare a Bologna non verrà più nessuno, e nessuno sarà più disposto a tollerare una città carissima e spesso ingrata in cambio di qualcosa che potrebbe trovare dietro casa. E al declino del Dams si intonerà, come purtroppo già accade, quello della città che lo pensò possibile.

L’articolo è uscito su «la Repubblica» (Bologna), 4 aprile 2007