La via Emilia dei teatri piange Quadri

Sono passati vent’anni da quel giorno d’autunno in cui conobbi Franco Quadri. Mi aspettava nel salotto dell’Hotel Roma di via D’Azeglio dove amava fermarsi quando veniva in città. Volevo parlargli dell’effetto violento e sconvolgente che aveva avuto per me l’incontro con Bernard-Marie Koltès, uno dei tanti scrittori che Quadri aveva saputo trasferire in Italia. Mi ascoltò, con quel sorriso sornione e acuto, che avrebbe accompagnato i vent’anni a seguire del nostro parlare burrascoso e coinvolto.

L’ho visto l’ultima volta a Milano la scorsa estate. Sono passato a trovarlo alla Ubulibri, in quel posto dove sempre mi aveva spinto ad andare e non ero mai andato. Sono uscito da quella stanza, con in regalo il libro del suo nuovo pupillo, uno scrittore argentino, Rafael Spregelburd, di cui mi parlava con un entusiasmo meraviglioso. Salutandolo gli ho baciato la mano, secondo un copione ironico che da un po’ di tempo a questa parte caratterizzava i nostri scambi. Giusto qualche mese prima, in una delle nostre email, gli avevo scritto “se tu non esistessi, se non avessi amato il teatro come l’hai amato e lo ami, se non avessi tradotto quelli che hai tradotto, io sarei senz’altro un uomo più piccolo”. Mi rispose che aveva passato il tempo “a cercare di metter qualcosa a posto e alludo alla marea di libri tra cui vivo e che devo in qualche modo sistemare per non mettere nei casini i miei eredi…”.

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